Francesca Cuccuru, “S’Ardia” e la gioia di essere Sarda

locandina
Locandina del film.

Sono stata invitata da Battista a presentare questo film per me entusiasmante.
In primo luogo, infatti, “S’Ardia de Santu Antine” si corre non solo a Sedilo, luogo di rappresentazione di questa pellicola, ma anche a Pozzomaggiore, mio paese di origine.
Il 6/7 luglio di ogni anno, in queste località, distanti tra loro solo una cinquantina di chilometri, si corre una spettacolare corsa a cavallo.
Tra i ricordi della mia infanzia questa festa ha un posto rilevante insieme a tantissimi altri quali: il profumo del pane e “de sos drucches” (dei dolci) preparati con amore da nonna Marietta e zia Furicca, i pomeriggi allegri trascorsi nella calzoleria dello zio Pietro, i canti e balli con il nonno “Farore“, Salvatore) a suon di “Nanneddu Meu” (storica canzone magistralmente riproposta anche gruppo sardo Tazenda).
Questi ricordi sono poche “gocce di memoria” tra le tante che rappresentano la gioia di essere Sarda.
La mia nota doveva essere solo di poche righe ma chi mi conosce sa che il mio mondo è fatto di parole infinite così non parlatemi di Sardegna perché riesco sempre ad improvvisarmi guida turistica, sommergendovi di parole e racconti.

Francesca Cuccuru

1 commento

  1. Conosco questa corsa spericolata a cavallo, specie quella strettoia per entrare nel paese. Non l’ho mai vista di persona, ma quando la trasmettono in tv, non manco di vederla. Per me è sempre un’emozione come se fossi presente, anzi meglio perché ho la possibilità di vedere tutte le fasi, mentre di persona ne vedrei poche.
    Non essendo sarda questo non porta a non considerare le tradizioni di altre culture. Ho una passione per tutto quello che ricorda il passato. La prima cosa a cui penso è la grande fatica del lavoro che tutti, uomini donne e bambini, perché anche i bambini dovevano dar il loro contributo, hanno dovuto fare per poter creare la loro vita, in più a continuare per mantenerla. Il progresso e la modernità del momento tendevano a mettere in solaio le tradizioni, perché si aveva un senso di vergogna, forse, per quello che era stato. Pensando che la povertà di quei tempi fosse un che di cui vergognarsi. Invece è quella la base di tutto il movimento, se nessuno fosse passato da li’ la parola cultura e tradizione non avrebbe senso.
    Quando assisto a feste tradizionali, dove si riporta la storia di un paese e della sua gente, mi emoziono molto. Mi ritorna in mente il profumo del pane fresco. Profumo che sentivo alla mattina alle cinque quando passavo davanti al fornaio per andare al lavoro. Ora dal forno esce solo profumo di dolci, ma quell’aroma non lo sento più.
    Quell’aroma, che, se anche avevi la pancia piena l’avresti divorato, caldo e fragrante. Per me, nata e vissuta in campagna ricordava il colore del grano maturo, la trebbiatura in mezzo alla polvere. I granai pieni di chicchi dorati, dove noi bambini si giocava a saltarci dentro come fosse stata una spiaggia senza mare. E il cortile con gli animali, non avevamo l’asino perché da noi si usavano i buoi e i cavalli, ma poco importa, siamo passati tutti da li’.
    Credo che sia una cosa giusta e sacrosanta prendersi cura degli animali specialmente degli asini, perché il loro latte aiutano tanti neonati ad alimentarsi quando le loro mamme sono senza, evitando così di nutrirli con prodotti che niente hanno a che fare con il latte materno. Anzi da un po’ di tempo a questa parte mi convinco sempre di più che negli omogeneizzati sia stato messo qualche cosa per rendere stupidi i nostri ragazzi. Sono due generazioni che abbiamo perduto, e non si sa il perché. Pochi di
    loro si salvano. Sono pochi i quarantenni di cui andarne fieri, gli altri fanno solo pena, basta leggere i giornali. Dei migliori si sa poco, solo quando fanno una scoperta sensazionale.
    Come la scoperta della velocità dei neutrini. Però la ciliegina ha pensato bene di metterla la ministra dell’istruzione. L’omogeneizzato ha colpito ancora.

    Con simpatia,
    Maria Luisa Bianco

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