Il ballo e la danza costituiscono una forma di linguaggio – organizzazione, regolazione, propiziazione e perpetuazione di vari aspetti del ciclo vitale – corteggiamento e amore

Il Dizionario della Lingua Italiana include tra le sue voci due lemmi dal significato affine nel linguaggio comune, Ballo e Danza. La prima parola, derivante dal verbo tardo-latino ballare, adattamento, a sua volta, del greco della Magna Grecia “ballízō“, indica «l’arte di muovere i passi e conformare l’atteggiamento delle membra secondo determinate regole e seguendo un ritmo musicale ((Cfr. G.Devoto-G.C.Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990, voci ballare e ballo.))». La seconda locuzione, invece, traente la sua origine dall’espressione danzare, italianizzazione del termine franco medioevale di incerto etimo “dancer“, designa «un susseguirisi di movimenti del corpo ritmato e modellato su un testo musicale appositamente scritto allo scopo, e del quale costituisce l’espressione e l’interpretazione figurata ((Cfr. G.Devoto-G.C.Oli, cit., termini danza e danzare.))». Le due parole, quindi, indicano un’azione umana dal valore espressivo, un insieme di gesti e segni dal valore comunicativo, ossia una condotta dotata di qualità, o meglio, quella che è definibile con la parola «linguaggio».
Si ha, in particolare, a che fare con un linguaggio composito, sensibilmente percepibile ((Cfr. S.Fontana, Linguaggio e Multimodalità, ETS, Pisa 2009, pp. 15-18.)), attuato, per lo più, attraverso movimenti del corpo organizzati sulla base di suoni concatenati e funzionalizzati, la musica, a sua volta altra forma umana di “modo d’esprimersi“. In ciò si rivela un’attività caratterizzata dal talento inventivo e dalla capacità espressiva dell’uomo, ossia un’arte intesa in senso ampio ((Cfr. G.Devoto-G.C.Oli, cit., primo significato del vocabolo arte.)), quello che gli antichi Greci solevano chiamare col termine tékhnē, vocabolo capace di denominare la relazione tra mezzi e fine, e dal quale deriva l’attuale parola italiana tecnica ((Cfr. E.Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, pp. 283-284.)). Oggi i termini italiani che, forse, meglio definiscono ai più questi concetti, in relazione al mondo della danza e del ballo, sono le voci del dizionario linguistico ((Cfr. le relative voci in G.Devoto-G.C.Oli, cit.)) coreografo e coregrafia, letteralmente “scrittore“ e “scrittura di coreutica“, cioè dell’arte della danza, come ben evincibile dalla relativa espressione greca “khoreutiké (tékhnē)“.
Posto, quindi, che il ballo e la danza costituiscono una forma di linguaggio, nella storia tale ambito ha avuto in passato, e custodisce tuttora, diversi valori simbolici e, talora insieme, rituali. Oltre ad aspetti socio-relazionali, emozionali ed esistenziali, in primis il corteggiamento e l’amore, in generale il linguaggio coreutico ha sempre serbato in sé una stretta connessione con le idee di organizzazione, di regolazione, di propiziazione e di perpetuazione di vari aspetti del ciclo vitale della natura immanente nel mondo, fatto costantemente riscontrabile sia nelle religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, sia presso i culti degli antichi popoli ellenici ((Cfr. J.Chevalier-A.Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, BUR, Milano 2008, voce Danza. Nonché: P.Toschi, Le origini del teatro italiano, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 53-66.)), come bene dimostrano anche sculture di epoca classica, quale esemplare si delinea essere la celebre Mènade dionisiaca di Skopas ((Cfr. P.Adorno, L’arte italiana, D’Anna, Messina-Firenze 1993, Vol. I, Tomo I, pp. 239-240.)), artista greco vissuto nel IV Secolo a.C. Tuttavia la danza costituisce anche un segno di liberazione dai limiti materiali e di manifestazione della vita interiore e spirituale, come evincibile, oltre che presso gli antichi Greci, nei passi biblici ((Cfr. Secondo libro di Samuele, Cap. VI.)) nei quali re Davide è descritto danzare davanti all’Arca dell’Alleanza ((Cfr. J.Chevalier-A.Gheerbrant, cit.)). Tutti aspetti propri delle espressioni coreutiche che, naturalmente, trovano ancora oggi un qualche riflesso anche nell’ambito delle tradizioni popolari e, in via molto mediata, nei momenti “disimpegnati” della quotidianità ((Cfr. P.Toschi, cit., pp. 53-66.)).
Gianni Cilloco