Orso e Quattro Mori, antichi simboli di Biella e di Sardegna

Nella bandiera sarda e nell’emblema del Comune di Biella compaiono l'”Orso” e i “Quattro Mori”, figurazioni del tutto simili a quelle inserite nello stemma di Benedetto XVI – Radici cristiane e simboli antichi, in parte cristianizzati, presenti nell’universo mitico europeo, sono stati illustrati durante la cerimonia dell’Alzabandiera mensile a Nuraghe Chervu.

fucileri di Su Nuraghe durante l'Alzabandiera a Nuraghe ChervuDomenica 2 agosto, alle ore 12, si è rinnovato il consueto appuntamento mensile dell’Alzabandiera a Nuraghe Chervu di Biella con omaggio floreale “ai Caduti sardi e ai Caduti biellesi” depositato ai piedi del menir su cui è incisa la dedica: “Agli intrepidi Sardi / della Brigata “Sassari” / nel comune ricordo / dei 13.602 figli di Sardegna / e dei 523 giovani biellesi / Caduti per l’Unità d’Italia“.
I “Fucilieri di Su Nuraghe“, negli antichi costumi della “Milizia sarda”, hanno issato il Tricolore sul pennone centrale dell’area monumentale di Nuraghe Chervu, affiancato dalle bandiere di Piemonte, di Sardegna, d’Europa e di Biella.
La cerimonia si è svolta sullo sfondo temporale delle celebrazioni del 2011, 150° anniversario del passaggio dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia, da cui è nata, con referendum popolare del 2 giugno 1946, la Repubblica Italiana. Il Regno di Sardegna, come noto, ha dato nome e fondamento giuridico al Regno d’Italia.
Durante la manifestazione, scandita dalla tromba di Paolo Mattinelli – che ha magistralmente eseguito l’Inno di Mameli, l’Hymnu Sardu Nationali e “Dimonios“, l’Inno della Brigata “Sassari” – il Presidente del Circolo Culturale Sardo “Su Nuraghe“, nel portare il saluto ai convenuti, ha brevemente illustrato i simboli presenti nelle bandiere di Biella e della Regione Autonoma della Sardegna: l'”Orso” e i “Quattro Mori”.
Nell’araldica civica della Provincia di Biella, compreso il Capoluogo, l’orso è il simbolo più ricorrente.
Si tratta di un animale mitico del letargo, ampiamente attestato nell’Europa della tradizione per indicare la “resurrezione” della natura, il “ritorno” della bella stagione dedotto dall’osservazione del formarsi della “luna nera” di febbraio la cui fase determina l’inizio del nuovo anno del calendario lunare. Nel mondo agro-pastorale, alle diverse fasi della luna, veniva affidato il compito di indicare l’inizio delle attività agricole. La luna governa il tempo della semina e, specie tra i “campagnin” e “buscarin” alpigiani, il taglio degli alberi da cui ottenere legname da opera.
L’orso/orsa di Biella, “al naturale”, passante sotto l’albero, da destra o da sinistra a seconda delle epoche e delle diverse vicende storico-politiche alternatesi nei secoli, è giunto/a fino a noi in tutta la sua solenne maestosità.
Nello stemma di Papa Benedetto XVI, entrambe le figure, orso e moro, guardano verso sinistra (araldicamente a destra), e perciò stesso presentano valenza positiva.
L’orso appare domato, gravato da soma, “cristianizzato” secondo un modello assai frequente nella vita dei “santi dell’orso” come in quella di San Corbiniano, cristianizzatore di Frisinga, la Diocesi di Papa Ratzinger – Santo irlandese come Sant’Orso di Aosta, (ma, secondo alcune fonti, di origine locale), eremita della locale chiesa cimiteriale che porta il nome stesso dell’orso – Saint Amad, vescovo di Maastricht o altri santi evangelizzatori alpini sono associati al plantigrado, quali, per esempio, San Romedio di Trento, San Lucano di Belluno o San Gallo dell’omonimo Cantone svizzero di cui è tramandato il miracolo di essersi fatto aiutare da un orso da lui ammansito durante la costruzione dell’eremo.
Identico comportamento dell’orso al servizio dell’uomo si riscontra anche nel Biellese come nel racconto di Pietro Gambaro di Pollone, riferito dal nipote Renato e confermato da Carlo Lanza: “Quando ero piccolo, nelle sere d’inverno, ci radunavamo nella stalla per stare un po’ al caldo. Mio nonno Pietro spesso raccontava di un tale di Salvine, paesino sopra Sordevolo, che un giorno, mentre era in campagna a tagliar legna, s’era imbattuto in un’orsa affamata. Quell’uomo, senza nessuna paura, l’aveva avvicinata offrendogli da mangiare. E quest’orsa, quasi per riconoscenza e in cambio di cibo, l’aveva aiutato per tutto l’inverno a trasportare legna. A un certo punto, però, è sparita e non si è più fatta vedere. Questo fatto lo conoscevano tutti, tanto che qualcuno precisava che l’animale viveva libero nella stessa casa assieme all’uomo che l’aveva addomesticato“. (Cfr. B.Saiu, Animali mitici del letargo nella Sacra Rappresentazione di Sordevolo, in AA.VV. (a cura dell’Associazione Teatro Popolare di Sordevolo), Dall’Oratorio del Gonfalone all’anfiteatro della “Passione” di Sordevolo, Ed. Lassù gli Ultimi di Gianfranco Bini S.A.S., Champorcher (AO), 2005, pp. 41-65).
Curiosamente, nello stemma pontificio è inserito anche un “moro coronato e collarinato“, il cosiddetto “caput ethiopicum, o moro di Frisinga“, figura che rimanda all’alterità, al nuovo e alla ricchezza di cui è portatore il diverso. Il “moro” dello stemma del Papa presenta poco note assonanze con i “mori di Sardegna”.
Una lettura del “moro” papale – cristianizzato – rimanderebbe a San Maurizio, il soldato della Legione Tebea, martirizzato sulle Alpi, le cui reliquie vennero riesumate da San Teodulo, primo vescovo di Sion, diocesi del Cantone Vallese, nella vicina Svizzera.
Nella bandiera sarda non è stato necessario associare le teste dei Quattro Mori a santi, poiché appaiono già cristianizzate della presenza della “Croce di San Giorgio” che ne accantona una in ciascun quadrande.
Durante i secoli, anche i Quattro Mori hanno subito diverse metamorfosi, apparendo alla fine del XIII sec. a capo scoperto, coronati o perlopiù bendati (con maggiore frequenza durante le persecuzioni contro Mori ed Ebrei e, successivamente, dopo la Battaglia di Lepanto), voltati, rivoltati o affrontati, a seconda dei periodi storici e del mesaggio affidato non solo all’araldica.
Alla fine della cerimonia è stato distribuito ai presenti il saggio “sulle bandiere” curato dal dott. Gianni Cilloco.


Qualche notizia storica sulle bandiere

nelle parole di Gianni Cilloco

Partendo dal significato e dall’etimologia delle parole, il presente lavoro si sviluppa attraverso la ricerca storica e lo studio dei significati del simbolo dei vessilli, dei relativi oggetti in essi rappresentati e degli elementi, in essi intrinseci, di convergenza culturale tra la Terra Biellese e l’Isola di Sardegna, con riferimento specifico agli stendardi territoriali issati nell’Area Monumentale di Nuraghe Chervu in occasione degli Alzabandiera mensili in omaggio ai Caduti della Grande Guerra, anche alla luce dei simboli presenti nello stemma di Papa Benedetto XVI.

Le parole di una lingua sono da sempre un prodotto ed, al contempo, una fonte di storia dei popoli che le parlano. Spesso, infatti, esse nascono quale strumento per indicare una determinata realtà od uno specifico fenomeno. Tuttavia il tempo può determinare sugli stessi vocaboli una trasformazione semantica e l’allontanamento dai significati di origine. In questo modo la memoria delle parole può entrare a far parte dei costumi e delle tradizioni di un popolo, facendo diventare gli stessi termini dei veri e propri “esseri viventi“, come il celebre autore di lingua francese Victor Hugo segnalava ben due secoli or sono[1].

Questo ragionamento ben si adegua con riferimento a quei “manufatti tessili” chiamati comunemente oggi, in lingua italiana, col vocabolo “bandiera“. A tale proposito appare preliminarmente opportuno segnalare qualche dato etimologico circa la suddetta parola ed i sinonimi ad essa riferiti.

Dalla Lingua Latina si ha:

  • Il termine italiano “Vessillo“, dalla voce “Vexillum – i“, ad indicare il concetto di insegna o bandiera in panno, con significato propriamente militare[2].
  • La parola “Labaro“, dalla tarda voce “Labarum – i“, ad individuare un vessillo rosso, a drappo quadrato, tipico di insegne di associazioni combattentistiche o politiche o di reparti militari[3].

Nella Lingua Italiana, che dal Latino trae origine, si hanno inoltre:

  • La voce “Bandiera“, derivante dal provenzale “band(i)era“, termine capace di indicare ciò che contrassegna ed identifica la banda o il gruppo, per lo più sotto un’ottica funzionale più propriamente strategico – militare, specie sui campi di battaglia, o politica[4]. Ma secondo talune fonti, tra cui Paolo Diacono nel IX Secolo e, successivamente, gli Umanisti, è sin a partire dall’epoca costantiniana che i vessilli e gli stendardi militari, per lo più in pelle o tessuto, venivano chiamati col termine tardo latino “bandum“, da cui i derivati romanzi come il gotico “bandaja“, il citato provenzale “ban(d)iera“, il francese “banniere“, nonché l’anglofono “banner” [5].
  • Il termine “Stendardo“, derivante dal francone “standard“, ossia quanto è stabile e fisso; questo vocabolo viene utilizzato per denominare l’insegna di guerra costituita da un drappo rettangolare, dipinto o ricamato, disteso su un pennone attaccato ad un‘asta verticale, segno di comando o di adunata, nonché emblema dello stesso capo[6].
  • La parola “Gonfalone“, dal francone “gundfano“, ossia la bandiera di guerra, individua, invece, l’insegna che durante il Medioevo veniva utilizzata come proprio emblema dai Comuni, dalla Chiesa, nonché da diverse confraternite o da soggetti od organizzazioni riconosciute di natura civile o religiosa. Tipologia particolare di detta bandiera è il cosiddetto “orifiamma“, gonfalone vermiglio cosparso di stelle o fiamme d’oro e terminante con due o tre punte, in origine insegna degli abati di Saint Denis e poi, dal XII al XIV Secolo, dei sovrani di Francia[7].

Le bandiere, vessilli, stendardi, labari o gonfaloni, con le loro figurazioni ed i loro colori[8], costituiscono da sempre una sorta di particolare linguaggio dei segni. Essi sono dei veri e propri simboli – guida, di protezione concessa o richiesta, in quanto colui che li tiene, sollevandoli al di sopra del capo, come evidenziato da eminenti approfondimenti etno – antropologici[9], tende ad invocare dal cielo, in qualche modo, un intervento divino.

L’uso di suddette insegne è documentato già molti secoli prima di Cristo e trova origine presso le popolazioni che abitavano i territori dell’odierno Medio Oriente. Nella Bibbia l’uso di questo linguaggio dei simboli è frequentemente rintracciabile in diversi brani, per lo più sotto un’ottica più propriamente connessa ad un ambito etnico – religioso, connotato da caratteri di resistenza e battaglia materiale, oltre che di conflitto interiore[10]. Emblematico è l’episodio in cui il profeta Mosé, durante le fasi dell’esodo degli Ebrei dalla schiavitù d’Egitto verso la Terra Promessa, indica nella persona di Jahvé il vessillo del Popolo Eletto[11], ossia Dio come Colui che è in grado di assicurare la certezza di un baluardo inespugnabile, di una guida e sicurezza, di un soccorso e di una protezione, conformemente a quanto da sempre presente in ambito di costume dei simboli all’interno della Cultura Semitica; tuttavia, a ben vedere, tale aspetto costituisce a sua volta anche l’espressione di un insieme di valori spirituali ed umani nel quale riconoscersi personalmente, in quanto l’Uomo e, conseguentemente, il Popolo Prescelto per eccellenza, costituiscono a loro volta “Immagine e Somiglianza di Dio“[12]. Sempre negli sviluppi della medesima vicenda, ma in un differente passo del Pentateuco[13], è presente la circostanza in cui il Signore ordina a Mosé ed al fratello Aronne di censire il Suo Popolo: “I figli di Israele si accamperanno ciascuno nel proprio accampamento, ciascuno vicino alla propria insegna con i simboli dei casati paterni…“. Successivamente il racconto biblico sottolinea come le dodici tribù di Israele si muovano, nel loro peregrinare nel deserto, ognuna portando un proprio vessillo identificativo in evidenza, a scandire un ordine di schieramento impartito da Dio con funzioni militari ed, al contempo, propriamente rituali e processionali, dal momento che in testa al corteo viene ad essere posta l’Arca dell’Alleanza[14]. In questi passi, con riferimento ad un’epoca risalente al XIII Secolo a.C. circa, si evidenzia, quindi, chiaramente la funzione identificativa della bandiera. Al contempo l’archeologia e le fonti scritte hanno documentato il probabile uso di stendardi o insegne in tessuto pure presso gli Egizi, i Cinesi e le popolazioni assiro – mesopotamiche[15] coeve, all’incirca, alla datazione di stesura dei racconti biblici del Pentateuco.

Successivamente il vessillo, inteso come drappo di tessuto, con suddette finalità e nella forma attuale, venne accolto dalla cultura militare ellenica prima e romana poi per la sua praticità dovuta al facile trasporto, come stendardo, primariamente presso i reparti di cavalleria[16]. Presso i Greci la stessa mitologia sembra comunque individuare già in precedenza un utilizzo di vessilli, o drappi simili, anche in ambito marinaro, nel racconto del ritorno di Teseo ad Atene da Creta, circostanza nella quale lo stesso eroe dimentica di innalzare la vela bianca quale segnale favorevole indirizzato al padre Egeo in attesa per il ritorno del figlio[17]. Alcune fonti latine, nel raccontare la campagna militare dei Romani contro i Parti del 53 a.C., fanno menzione dell’uso di cosiddette “serica vexillia” da parte dei nemici, ossia di stendardi fatti con una tipologia di seta orientale resistente ed ancora ignota al tempo nel bacino del Mediterraneo[18]. Nei suoi scritti quasi contemporanei, invece, Caio Giulio Cesare, utilizza il termine vessillo con riferimento al drappo od alla bandiera rossa che si innalzava sulla tenda quale segnale della battaglia[19]. Successivamente pare che gli imperatori e i generali, secondo un uso iniziato nel I Secolo d.C., facessero portare in guerra davanti a loro il cosiddetto e già citato labaro, un’insegna di porpora quadrata posta su di una lancia[20], mentre talune fonti[21] attestano anche il costume di fare dono di bandiere di porpora, fregiate in oro, agli ufficiali superiori, ai tribuni ed ai prefetti quale alta ricompensa per l’alto valore militare dimostrato in battaglia. Negli stessi anni, invece, lo storico Cornelio Tacito informa i suoi lettori di come tale costume non fosse ancora presente presso i Germani, i quali al tempo utilizzavano ancora scudi dipinti indicatori di appartenenze tribali.[22]

Con l’avvento del Cristianesimo la Croce di Cristo ed i simboli ad essa connessi[23] diventano un emblema che viene recepito nelle bandiere. In un’ottica di fede la Croce assurge a segno di Salvezza: le braccia allargate del Crocifisso, simboleggiando l’Amore di Dio per il mondo, rappresentano anche il simbolo della vittoria del Risorto sulla morte e sul peccato, concetto articolato ed approfondito nel corso del tempo nella Liturgia Cattolica con il consueto utilizzo di vessilli nel corso di solenni rituali processionali[24], specie durante le celebrazioni della Settimana Santa, della Pasqua, del Corpus Domini, dell’Ascensione e dei Santi protettori. La vasta diffusione della fede cristiana nell’area Romano – Mediterranea pare abbia spinto nel IV Secolo gli imperatori romani a fare della Croce, e dei segni ad essa legati, uno degli elementi fondanti il consenso al proprio potere ai vertici dello stato. Celeberrimo a riguardo è l’episodio della scelta effettuata da Costantino riguardo al proprio emblema militare e di lotta politica durante la guerra avvenuta per l’ascesa al potere imperiale: la storia narra che il monogramma “IHVS” che, prima dello scontro decisivo con i propri avversari, egli fece apporre sulle insegne e sui vessilli del proprio esercito deriverebbe dalla frase “In Hoc Signo Vinces” (trad.: “in questo segno vincerai“), che gli sarebbe apparsa miracolosamente, o in sogno od in cielo; in particolare, pare che, a seguito di detta circostanza, lo stesso Costantino abbia fatto apporre sul proprio labaro, prima della battaglia decisiva contro Massenzio sul ponte Milvio, lungo la via Flaminia, avvenuta il 28 ottobre 312 d.C., la croce con le lettere greche incrociate “XP” unitamente alle parole della citata visione “divina” [25]. Tuttavia si deve considerare che i culti solari orientali, come il culto di Mitra o di Horus (il Sole Invitto), erano assai diffusi al tempo in tutto l’Impero Romano, e specialmente tra i soldati, ed avevano come segni caratteristici proprio analoghi simboli, ragione per la quale gli stessi Cristiani iniziarono a farli propri al fine di depotenziarne la valenza pagana[26]. A prescindere quale siano state le effettive ragioni concrete che spinsero Costantino alla predetta opzione, di fatto il risultato cui si giunse fu l’introduzione di questa simbologia della croce nei vessilli di guerra o funzionali al mondo delle relazioni politiche. Successivamente le fonti[27] attestano che i pontefici della chiesa di Roma, a partire dal VII Secolo, abbiano fatto uso nei loro cerimoniali, specie in caso di presa di possesso di chiese e proprietà, a vessilli in tessuto.

Questo costume pare successivamente trasmettersi nel sistema delle relazioni feudali, stabilizzando così il significato della parola “bandiera” secondo connotati strettamente giuridico – politico: il vocabolo, infatti, derivando da “banno” o “bando“, qualificava il possesso ed il cosiddetto “diritto di banno“, cioè il potere autoritativo di colpire i contravventori delle regole[28]. Da questi aspetti deriverebbe poi la distinzione terminologica di epoca comunale per la quale la figura del Podestà viene ad essere rappresentata da un drappo denominato “bandiera“, mentre la parola “vessillo” designa quanto attiene al panno propriamente dei Comuni[29].

Nelle zone dell’odierno Medio Oriente, nel frattempo, in corrispondenza dei territori degli attuali Iran ed India settentrionale, ove durante l’Antichità si diffusero vari culti solari che, probabilmente, influenzarono tutte le culture territorialmente prossime, Semiti compresi, diverse fonti[30] attestano l’utilizzo di stendardi di guerra in tessuto già presso gli eserciti dell’Impero Persiano ed, in seguito, come precedentemente accennato, in quelli dei Parti, con utilizzo di simbologie araldiche, quali l’aquila[31] in primis, riprese successivamente, sebbene in modo più ristretto, stilizzato e secondo rigidi significati e canoni dettati dalla religione, con il raro corredo di simboli, a seguito del sorgere e del diffondersi dell’Islam[32]. Nel mondo musulmano, infatti, sono state utilizzate, e vengono tuttora inalberate, specie in ambito militare o nei cerimoniali di corte, nonché durante i riti funebri e in quelli di pellegrinaggio, bandiere di colore diverso, frutto di un percorso storico che ha dato luogo ad un linguaggio cromatico che, taluni mistici islamici denominano “a contatto immaginale” o suggestivo[33], con uso e significato prevalentemente dinastico – sacrale, tuttora in adozione anche nei vessilli nazionali dei moderni Stati Arabi[34]. In particolare nel tempo sono stati utilizzati tre principali colori tra le bandiere islamiche:

  • il “nero“( in arabo “akhal” o “assuad“): rappresenta vari significati. Secondo la tradizione[35] Maometto avrebbe indossato delle vesti nere il giorno nel quale conquisto La Mecca. Per i mistici, invece, detta pigmentazione indica la Luce Divina; esso è una forma di segno che fa riferimento al Profeta, nonché alla Ka’ba della Mecca, la Casa di Dio, in cui è presente una pietra nera[36], ed è stato adottato, quale segno di lutto, dalla dinastia degli Abbassidi, discendente da un ramo della famiglia di Maometto[37]. Ma a riguardo esiste anche una corrente di pensiero, insita soprattutto nei costumi dei territori dell’odierno Iran, per la quale il nero avrebbe una valenza funesto –negativa, concezione collegata anche al fatto che il corvo è un animale maledetto nella religione islamica[38].
  • il pigmento “bianco“( in arabo “abiadh“): introdotto a seguito dei governi dei cosiddetti Umayyadi, famiglia subentrata al potere dell’Impero Arabo dopo i primi quattro califfi, detti i “ben guidati“[39], tale colore, utilizzato dal Profeta, ha anche un significato di lutto in quanto richiama il colore del sudario, detto “izar” in lingua araba[40]. Esso si lega nella sua origine anche agli antichi culti solari nei territori dell’odierno Iran, in quanto utilizzato per le vesti dei sacerdoti zoroastriani[41].
  • la tinta “verde“( in arabo “akhdhar“): essa è l’emblema dell’Islam per eccellenza, riferito al tema della Salvezza e del Paradiso, della Conoscenza ed alle maggiori ricchezze spirituali e materiali dell’esistenza umana. La tradizione[42], in particolare, narra che di questo colore fosse il cosiddetto “burda“, ossia il complesso delle vesti, il mantello od il velo indossato dal Profeta, cui fa riferimento in diversi passi il Corano[43], e con riferimento al quale, in caso di imminente e grave pericolo, pare abbiano al di sotto figurativamente trovato rifugio i più diretti discendenti dello stesso Inviato di Dio, e dai quali avrebbe avuto poi origine la dinastia Fatimide[44]. Il colore verde è poi diventato nel tempo il colore ufficiale di tutto il mondo dell’Islam, spesso utilizzato per gli orifiamma[45], unitamente al simbolo della luna crescente, cui il Corano[46] e la stessa tradizione musulmana fanno spesso riferimento[47], soprattutto a seguito della nascita dell’Impero Turco intorno alla metà del XIII Secolo[48].

A quanto sopra detto si aggiunge la considerazione per la quale, proprio a seguito dell’occupazione araba della penisola Iberica prima, nonché successivamente ai contatti tra eserciti Cristiani e Musulmani durante la fase delle Crociate, di fatto il costume dell’uso di vessilli e di stendardi in panno ricevette un ulteriore contributo all’ingresso permanentemente nei relativi comportamenti militari e religiosi delle popolazioni europee.

Di fatto, quindi, intorno al IX Secolo è attestata la comprovata e diffusa notorietà ed uso del moderno tipo di vessillo in tessuto in Europa e nel bacino del Mediterraneo. I primi studi del tempo sulla bandiera individuano in essa diverse funzionalità, sia trascendentali, sia propriamente terrene: a riguardo, nel XII Secolo, Riccardo di San Vittore, segnalò come i vessilli, di per sé, assurgessero ad un significato di sollievo e di elevazione dello spirito nella contemplazione delle realtà celesti, quale sorta di iniziazione ai segreti divini[49], mentre le stesse fonti medievali attestano il costume di far benedire i gonfaloni e gli stendardi, spesso rappresentanti le effigi di santi patroni, prima di campagne militari. Più concretamente, in ragione di tutti questi rilievi, è possibile dire che i vessilli, quale drappo di tessuto, in questa epoca ed in tutta l’area dell’Occidente, erano, ormai divenuti definitivamente elemento identificatore, talora alternativamente, talvolta congiuntamente, di un’entità ricollegabile o ad un nobile, oppure ad un capo politico o di stato o militare, o ad un santo, o ad una congregazione, o più frequentemente, da ultimo ad una” patria”, una fede od un’ideologia politica od una personale scelta di natura etico – morale. A tale riguardo emblematico è il carico di significati rinvenibile nella celeberrima metaforica raffigurazione del destino ultraterreno delle anime dei pusillanimi o “ignavi“, rintracciabile nella Divina Commedia[50], condannate, per contrappasso, a correre per l’eternità dietro un’anonima bandiera dopo aver vissuto una stolta vita priva di scelte.

In questo quadro viene ad inserirsi il tema dell’origine del linguaggio simbolico dell’araldica, cui in precedenza si è fatto breve cenno[51], ossia alla varietà stemmi di soggetti rappresentati da immagini antropomorfiche, zoomorfiche o fitomorfiche, geometriche, mitologiche od allegoriche dipinte o ricamate sulle stesse, quale metafora della storia di una famiglia o di un ente, delle alleanze matrimoniali o delle successioni e delle tradizioni, per quanto concerne l’ambito propriamente civile. Parallelamente, anche presso il clero venne a formarsi una speciale araldica ecclesiastica, con l’apposizione intorno a stemmi di simboli ed insegne di carattere ecclesiastico e religioso, secondo i gradi dell’Ordine sacro, della giurisdizione e della dignità. Sovente a dette figurazioni si vennero ad associare anche motti o massime, puntualizzando meglio, così, le allusioni e concetti sottesi alla simbologia rappresentata nelle varie effigi[52].

Tipico esempio di tutto ciò è riscontrabile oggi, naturalmente, anche nei vessilli che vengono issati presso l’area monumentale di Nuraghe Chervu, a Biella. In questa breve trattazione si pone l’attenzione, in particolare, sulle bandiere della Città di Biella e della Regione Sardegna.

Nella storia della Città di Biella, relativamente ai propri stemmi ed orifiamma, è attestato l’utilizzo di un’orsa passante ai piedi di un albero a far data dalla metà del XIV Secolo circa[53], quale effige apposta su di una pergamena inviata al podestà di Novara a rappresentazione dello stesso centro. Nella tradizione nordico – celtica continentale l’orso era l’emblema della classe guerriera in opposizione a quella sacerdotale rappresentata dal cinghiale, nonché delle divinità della giustizia e della guerra, mentre nel mondo greco – classico si legava al culto di Artemide, divinità lunare[54], quale segno della forza sacrificale e dei riti di passaggio di matrice agricolo – pastorale[55]. Perciò nella storia della città la scelta di questo emblema si delinea rappresentare le spinte autonomistiche delle comunità locali dal giogo del dominio feudale dei vescovi di Vercelli. Tuttavia a tale tesi pare possibile affiancare anche l’ipotesi che l’identificazione delle genti biellesi con il simbolo dell’orso potrebbe essere stata permessa, o quantomeno tollerata dai signori del clero vercellese, forse anche perché coesisteva nella stessa chiesa medievale un simbolismo che associava l’orsa alla sollecitudine materna: la cura verso i sui piccoli, infatti, coincide con l’immagine stessa della chiesa, premurosa come l’orsa verso i suoi figli che, con il battesimo, si uniformavano all’immagine del Figlio di Dio[56]. A ciò appare doveroso aggiungere la considerazione secondo la quale, in tutto il territorio europeo[57], l’utilizzo di questa figura zoomorfa si connetta certamente ad influenze dovute all’agiografia dei santi, le quali potrebbero anche risentire della forte sacralità riconosciuta a questo animale fin dall’antichità ed all’intento ecclesiastico di purificare e decontaminare il carattere pagano di queste figurazioni simboliche[58]. In particolare sussistono, infatti, casi in cui l’orso si comporta come alleato di un profeta o di santo, talora martire; in altre occasioni l’orso si pone a servizio o protezione del santo. Emblematici sono i casi del profeta dell’Antico Testamento Eliseo[59] o di San Romedio[60], in cui il plantigrado diviene persino cavalcatura personale; nella leggenda di San Cerbone da Populonia[61], invece, il santo non viene toccato da alcuni orsi che avrebbero dovuto divorarlo, comportandosi come i leoni del personaggio biblico Daniele[62], ossia lambiscono i piedi dell’uomo pio in quanto ammansiti dallo stesso[63], mentre nel caso di San Bernardo il santo acquisisce nel suo carisma le qualità dell’orso[64], ossia la forza, come desumibile dalla stessa etimologia del nome[65]. Più complesso appare, invece, il significato dell’albero, un olmo, simbolo di per sé assai complesso e ricco di varianti, diffuso in svariate culture, europee e non, relativo al collegamento tra terra e cielo, al ciclo rigeneratore della vita e della fecondità, nonché alla rappresentazione del concetto di protezione, amicizia, forza e sostegno[66]. Tornando alla storia degli stendardi è attestato che con R.D. 12 marzo 1931 e successive RR.LL.PP. del 04 febbraio 1932, alla Città di Biella venne concesso il diritto di far uso del gonfalone di guerra, consistente in un drappo di color rosso, riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dello stemma araldico del Comune sopra analizzato.

La Bandiera della Sardegna, denominata comunemente “dei Quattro Mori“, ha comportato un complesso di studi pieno di leggenda e realtà storica nel corso del tempo senza che, attualmente, si sia addivenuti ad una soluzione univoca[67]. La tradizione spagnola[68] la considera una creazione di Re Pietro I di Aragona, quale celebrazione della vittoria di Alcoraz (1096), nella fase di Reconquista Spagnola contro i Mori che occupavano buona parte della penisola Iberica, la quale sarebbe stata ottenuta con l’aiuto anche di San Giorgio[69], il cui stendardo, poi adottato dagli eserciti europei durante le Crociate, era una croce rossa su sfondo bianco: secondo la leggenda il santo guerriero avrebbe lasciato sul campo le quattro teste dei re saraceni recise (quattro mori): per i più, le quattro teste rappresenterebbero, in realtà, quattro importanti vittorie sui musulmani conseguite dai catalano-aragonesi in Spagna, e rispettivamente la riconquista di Saragozza, di Valencia, di Murcia e delle Isole Baleari. La tradizione sarda[70], invece, ha legato lo stemma ad un leggendario gonfalone donato dalla Chiesa ai Pisani in aiuto dei Sardi nella lotta contro i tentativi di assoggettamento dell’Isola da parte dei Saraceni[71]; il vessillo sarebbe poi diventato, su imposizione aragonese, l’emblema identificatorio del Regnum Sardiniae et Corsicae[72], reame creato formalmente ad hoc e ceduto in vassallaggio alla Casata Iberica a seguito di una bolla super reges et regna del 5 aprile 1297, da parte del pontefice Bonifacio VIII, atto ligio scritto che seguì la solenne investitura a re di Giacomo II d’Aragona, avvenuta il giorno precedente, il 4 aprile 1297, con la consegna allo stesso sovrano dalle mani del papa di una coppa d’oro simbolica durante una cerimonia tenutasi all’interno dell’antica basilica di San Pietro a Roma[73]. Tali fatti, sostanzialmente formali e cerimoniali, trovarono tuttavia una concretizzazione effettiva, in fatto ed in diritto, del Regno imperfetto[74] di Sardegna, solo a seguito della resa pisana all’assedio aragonese al Castel di Cagliari ed alla firma in Bonaria, il 19 giugno 1324, di accordi con i quali il Comune di Pisa cedeva alla Casata di Aragona tutti i territori della Gallura e del Cagliaritano in cambio della concessione, quale feudo, dello sbocco al mare attraverso l’appena espugnata rocca fortificata[75]. Parallelamente sussiste anche una tesi secondo la quale l’emblema della Sardegna avrebbe un’origine templare risalente a quando Ugo di Payns, fondatore e primo maestro dell’ordine, fece suo il blasone prima del 1129, data che dovrebbe coincidere con l’istituzione della “Nuova milizia del Tempio“[76]. Tuttavia ciò che è certo è che la più antica attestazione del vessillo risale al 1281, al sigillo della cancelleria reale di Pietro d’Aragona; l’emblema risulta poi iscritto nel cosiddetto “Stemmario di Gerle“, codice medievale ancora oggi conservato a Bruxelles e che attesta, con gli altri dati storici oggi disponibili, come, solo dalla metà del XIV Secolo, la bandiera sia legata alla Sardegna per simbolizzarne il regno all’interno della Corona di Aragona[77]. In questo quadro di insieme rileva il fatto che il simbolo dei sardi che combatterono contro l’invasione catalano-aragonese fu, invece, l’albero sradicato della bandiera del cosiddetto Regno di Arborea: in sostanza i sardi combatterono un esercito straniero identificato, paradossalmente, da un emblema che in futuro sarebbe diventato loro. Successivamente risulta che nel 1516, durante le onoranze funebri del re Ferdinando il Cattolico, abbia sfilato un cavallo con lo scudo dei Quattro Mori, mentre il Capitolo di Corte degli Stamenti Militari di Sardegna, risalente al 1571, appare come il primo documento ufficiale sardo che riporti il simbolo dei mori. È da notare come la stessa bandiera sia stata accettata dalla collettività sarda solo in epoca recente, perché, in sostanza, essa rappresentò per molto tempo l’invasore contro cui combattere, tanto che durante i moti nel 1794 l’alternos Giovanni Maria Angioy e i suoi sostenitori non lo utilizzarono come stemma della loro lotta antifeudale e indipendentista perché allora rappresentava il loro nemico, ossia il Regno di Sardegna dei Savoia. Durante i secoli i mori furono raffigurati in diverso modo: senza benda, con benda sugli occhi o sulla fronte, a destra o a sinistra, o coronati. Solo nel Settecento si stabilì l’iconografia che continuò a perdurare fino al 1999, ossia la bandiera di San Giorgio (croce rossa su campo bianco), con in ogni quarto una testa di moro, con benda sugli occhi, in direzione dell’inferitura. Tuttavia la benda sulla fronte risulta storicamente, sin dall’antichità, utilizzata come un simbolo di regalità o di preminenza, specie in ambito strettamente sacrale: risulta infatti, dall’analisi di diversi reperti archeologici, che già i Greci utilizzassero le bende come premio o forma di riconoscimento di quanti primeggiassero in varie attività competitive, civili e belliche, divinità comprese, come evincibile anche nel caso delle frequenti rappresentazioni di Nike – La Vittoria. È stato riscontrato poi che, in ambito di corredo funerario, specie etrusco, la presenza di una benda nelle rappresentazioni umane ed antropomorfe presenti sui corredi delle tombe costituisce un segno collegabile all’auspicio di vittoria sulla morte attraverso la speranza di una vita ultraterrena. Marco Tullio Cicerone stesso ricorda nei suoi scritti come lo stesso accessorio, in lana tinta di bianco o rosso, venisse portata in capo anche da parte di membri di particolari tipologie di classi sacerdotali, quali, le vestali, con ulteriore significato di inviolabilità[78]. Risulta inoltre che, in epoca tardo repubblicana, nonché a partire dalla fase imperiale[79], il termine “infula – ae“, usato con riferimento alla fascia, sia stato utilizzato anche per indicare l’insegna degli Imperatori o di alte cariche istituzionali[80]. È probabile quindi, che l’utilizzo della benda quale simbolo di comando sia stato un costume trasmesso nel tempo anche presso l’Impero Romano d’Oriente e che da questo sia poi passato nei comportamenti cerimoniali ed istituzionali dei Bizantini del primo Alto Medioevo. Inoltre, nella storia dell’araldica italica, si ravvisa altre sì un significato simbolico ulteriore, ossia il fatto che, in generale, la raffigurazione del moro che porta intorno alla testa una banda bianca sta ad indicare lo schiavo reso libero, e per tale motivo non coronato come, invece, appare nell’area germanica. Alla luce di tutte queste considerazioni, quindi, nel caso dell’emblema sardo, tenuto conto del fatto che la Sardegna è stata oggetto della forte influenza della dominazione bizantina[81] a partire dal VI Secolo d.C., la benda di per sé potrebbe anche collegarsi ad un probabile uso fattone dagli antichi magistrati degli storici quattro Giudicati sardi dell’Alto Medioevo, ed, al contempo, l’apposizione della stessa sugli occhi dei mori nell’emblema potrebbe probabilmente avere un significato da relazionarsi con gli atteggiamenti ostili del governo piemontese verso la popolazione isolana[82], o, più materialmente, ad un presumibile superficiale errore di redazione da parte dei disegnatori sabaudi del XVIII Secolo. Nel 1952, attraverso il D.P.R. del 05 luglio 1952, lo scudo dei quattro mori bendati negli occhi divenne bandiera ufficiale della Regione Autonoma Sardegna[83]. Solo con l’art. 1 della Legge Regionale 15 Aprile 1999, n. 10, la bandiera dei quattro mori è passata dalla versione del Regno Sardo in epoca piemontese a quella che orna tuttora un quarto dello stemma d’Armi della Provincia spagnola di Aragona ma con i mori opposti all’inferitura. Infatti il vessillo ufficiale si presenta oggi su “… campo bianco crociato di rosso con in ciascun quarto una testa di moro bendata sulla fronte rivolta in direzione opposta all’inferitura…“.

stemma di Papa Benedetto XVI presente sulla facciata del palazzo vescovile di OristanoA riguardo è interessante notare, in relazione alla simbologia presente sia nella citata bandiera sarda, sia nel vessillo del Comune di Biella, la presenza di figurazioni del tutto simili a quelle oggi presenti all’interno dello stemma papale dell’attuale pontefice cattolico Benedetto XVI. A partire dal 24 aprile 2005, secondo un costume ormai consolidato, l’ex Cardinale, ex arcivescovo di München und Freising (Monaco e Frisinga), Joseph Ratzinger, ha scelto di portare nel suo stemma pontificale, intorno al cosiddetto scudo[84], le due chiavi “decussate“, ossia disposte a “croce di Sant’Andrea“, una d’oro e una d’argento, a rappresentazione del potere spirituale e di quello temporale[85]. In basso, nel punto più nobile dello stemma, è presente una conchiglia dorata, elemento decorativo assai presente nei luoghi di culto cristiano, specie per le acquasantiere. Tuttavia la conchiglia, di per sé, è un simbolo universale di origine pre – cristiana, presente altre sì presso la stessa cultura islamica[86], con significato di fecondità: essa infatti, secondo alcuni studi etno – antropologici[87], rimanderebbe all’oca, attributo anche di San Martino di Tours, animale sacro nelle civiltà dell’antichità[88] e simbolo – messaggero dell’Altro Mondo di matrice Celtica[89]. A riguardo è interessante notare come la figura della conchiglia sia divenuta caratteristico attributo di San Giacomo Apostolo e simbolo dello storico Cammino di pellegrinaggio che, congiungendosi alla Via Francigena, dai Pirenei porta alla Cattedrale di Santiago di Compostela, in Galizia (Spagna), storico territorio a sua volta precedentemente sacro e meta di peregrinaggi iniziatici da parte dei Celti: ivi lo stesso simbolo è a volte associato alla Santa Vergine Maria, per lo più frequentemente rappresentata come seduta, “nera“, con in mano un frutto od in braccio il Bimbo[90], similmente al simulacro di Nostra Signora di Oropa, tutti elementi indiziari o, comunque, riconducesti ad una sorta di sincretismo religioso volto a depurare i precedenti culti pagani presenti sul territorio[91]. In relazione alle conchiglie, Domenica 24 aprile 2005, giorno di inizio del suo pontificato, Papa Benedetto XVI indossava una casula su cui dominava una grande conchiglia, confermando così, attraverso i segni, la volontà di continuare a viaggiare da pellegrino per il mondo, come il suo predecessore Giovanni Paolo II[92]. Tornando allo stemma papale, si riscontra che al di sopra dello scudo è presente, invece, una semplice mitra pontificia di argento, a ricordo delle simbologie della tiara[93], dotata di tre fasce d’oro, ossia i tre suddetti poteri di Ordine, Giurisdizione e Magistero, collegati verticalmente fra di loro al centro per indicare la loro unità nella stessa persona; è poi presente un simbolo del tutto nuovo nello stemma del papa, ossia la presenza di un pallio, tipica insegna liturgica presente molto spesso in antiche raffigurazioni papali: essa indica l’incarico di pastore del gregge degli uomini[94] e segno esplicito e fraterno del compartire la giurisdizione papale collegialmente ed in chiave di sussidiarietà, con gli Arcivescovi metropoliti, e mediante questi con i Vescovi loro suffraganei[95]. Lo scudo, invece, che in questa sede indirizza maggiormente l’attenzione del presente lavoro, reca al suo interno simbologie legate alla persona che se ne fregia, alle sue idealità, alle sue tradizioni, ai suoi programmi di vita ed ai principi che lo ispirano e lo guidano. Nel linguaggio araldico tale stemma viene così blasonato: “Di rosso, cappato di oro, alla conchiglia dello stesso; la cappa destra, alla testa di moro al naturale, coronata e collarinata di rosso; la cappa sinistra, all’orso al naturale, lampassato e caricato di un fardello di rosso, cinghiato di nero“[96]. In particolare l’emblema contiene nel cantone sinistro della cappa un orso, di colore bruno, al naturale, con un fardello sul dorso: un’antica tradizione racconta come il primo Vescovo di Frisinga, San Corbiniano da Chartres (680-730), messosi in viaggio per recarsi a Roma a cavallo, fu assalito da un orso che gli sbranò il cavallo; egli riuscì tuttavia ad ammansire l’orso ed a caricarlo dei suoi bagagli facendosi accompagnare dallo stesso fino a Roma. In ragione di ciò l’orso è stato rappresentato con un fardello sul dorso, a simbolizzare nell’orso addomesticato dalla grazia di Dio lo stesso Vescovo di Frisinga, nonchè nel fardello il peso dell’episcopato da lui portato. È poi presente una testa di moro, in questo caso coronata e collarinata[97], a memoria sia del Sacro Romano Impero, il cui patrono era San Maurizio[98], sia dell’antico simbolo della citata Diocesi di Frisinga, nata nell’VIII secolo, diventata Arcidiocesi Metropolitana col nome di Monaco e Frisinga nel 1818, dopo il Concordato tra Pio VII ed il Re Massimiliano I di Baviera (05 giugno 1817). Nella tradizione bavarese, in particolare, la testa di moro appare, molto di frequente ed è denominata “caput ethiopicum, o moro di Frisinga“, in conformità alla tradizione secondo cui l’Etiopia sarebbe stata la patria di uno dei tre Re Magi, le cui reliquie erano state trasportate in Germania, a Colonia, dall’Imperatore Federico I, detto il Barbarossa[99].

Note

[1] A tale riguardo si segnalano le considerazioni presenti nel Proemio di G.Gallo Orsi all’opera: AA.VV. (a cura della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro), Le parole raccontano, Ed. G.Einaudi, Torino, 1986, pag. VII e VIII.

[2] In L.Castiglioni e S.Mariotti, IL – Vocabolario della Lingua Latina, Ed. Loescher, Nuova Edizione – Roma, 1990.

[3] Rispettivamente in G.Devoto e G.C.Oli, Il dizionario della Lingua Italiana, Ed. Le Monnier, Firenze, 1990, ed in L.Castiglioni e S.Mariotti, op. cit.

[4] In G.Devoto e G.C.Oli, op. cit. E così pure nella relativa voce: J.Chevalier e A.Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Ed. VIII – BUR Dizionari, Milano, 2008.

[5] Così racconta a riguardo G.Nardoni da Ascoli, Stendardi, Insegne, Bandiere, saggio consultabile on line al seguente link: http://sbajesi.netsons.org/sbajesi/modules/tinyd0/content/index.php.

[6] A riguardo: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[7] Così nella relativa voce: G.Devoto e G.C.Oli, op. cit.

[8] Sul linguaggio dei colori, in particolare: C.Pagani, Le variazioni antropologico culturali dei significati simbolici dei colori, in Leitmotiv, n. 1, Anno 2001, pag. 175, saggio consultabile on line in http://www.ledonline.it/leitmotiv/

[9] Sul punto specialmente la voce “vessillo” in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[10] Si vedano a titolo esemplificativo diversi brani consultabili nei libri dell’Antico Testamento. Ex plurimis: Salmi, XIX (XX), 5; LXXIII (LXXIV), 4 e 9, tratti da P. Beltrame Quattrocchi, I Salmi Preghiera Cristiana – Salterio Corale, Ed. XII – del Deserto, S.Agata sui due Golfi (NA), 1994. Nonché, da La Bibbia, Ed. VIII – Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1991: Geremia [L, 2; LI, 12 e 27] e Cantico dei Cantici [VI, 4 e 10]; e secondo una chiave di lettura profetico – messianica nel Libro di Isaia [V, 26; XI, 12; XIII, 2; XIL, 22; LXII, 10].

[11] In Esodo, XVII,15, da La Bibbia, op. cit.

[12] Vedasi l’episodio della Creazione dell’Uomo nel Libro della Genesi ai Capp. I, 26; II, 7, da La Bibbia, op. cit.

[13] In Numeri, I, 52 – 53, da La Bibbia, op. cit.

[14] In Numeri, X, 11 – 28, da La Bibbia, op. cit.

[15] Sul punto si veda: G.Nardoni da Ascoli, op. cit. Nonché la voce “Vessillo” sul sito: www.wikipedia.org.

[16] Alcune fonti parlano di stendardi in uso negli eserciti del secondo consolato di Mario, intorno all’anno 100 a.C. A riguardo si vedano i cenni di: G.Nardoni da Ascoli, op. cit.

[17] Si veda a riguardo: R.Graves, Miti Greci, Ed. XXII – Longanesi – Il Cammeo, Milano, 2008, pag. 312 e ss.

[18] A tale proposito: V.Sirago, voce “Esotismi” in AA.VV., Enciclopedia Virgiliana, Ed. Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1986, pag. 388 – 390.

[19] Così nella voce “vexillum-i“: L.Castiglioni e S.Mariotti, op. cit.

[20] A riguardo ne parla l’autore del IV – V Secolo d.C. Aurelio Prudentio Clemente, come indicato alla citata voce “labarum – i” in L.Castiglioni e S.Mariotti, op. cit.

[21] Si rimanda alla voce “Vessillo” sul sito: www.wikipedia.org.

[22] Testualmente: “… Et eques quidem scuto frameaque contentus est; pedites et missilia spargunt, pluraque singuli, atque in inmensum vibrant, nudi aut sagulo leves. Nulla cultus iactatio; scuta tantum lectissimis coloribus distinguunt …” in Cornelio Tacito, Germania, VI, in Cornelio Tacito, Agricola – Germania – Dialogo sull’oratoria, Ed. Garzanti, Milano, 1991.

[23] Per approfondimenti sul significato generale del simbolo della “croce” si veda la relativa voce in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit. Nonché: R.Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Ed. IX – Adelphi, Milano, 2008, pag. 63 e ss.; pag. 345 e ss.

[24] A riguardo si veda, a titolo esemplificativo, quanto documentato sull’utilizzo di vessilli in ambito religioso, a livello di testo, nonché per quanto concerne l’annesso materiale fotografico, in: F.S.Ruiu e G.Concu, I riti della Settimana Santa in Sardegna, Ed. Imago Multimedia, Nuoro, 2007, pag. 9 e ss.; pag. 15 e ss.; pag. 44 e ss. e pag. 52 e ss.

[25] Si rimanda ad: Aurelio Prudentio Clemente, voce “labarum – i” in L.Castiglioni e S.Mariotti, op. cit. A riguardo, oltre a quanto precedentemente riferito in G.Nardoni da Ascoli, op. cit., si veda ancora: B.Saiu, Animali mitici del letargo nell’iconografia ossolana. Draghi e orsi per un santo, San Bernardo al Sempione, in L.Ciurleo (a cura di), Sempione 1906 – 2006 – La sottile linea scura, Ed. Comitato “I cent’anni del Sempione”, Domodossola (VB), 2007, pag. 28.

[26] Si consultino sui profili strettamente antropologici e sulle analisi delle divinità orientali solari le voci relative in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit. Ed: R.Guénon, op. cit., pag. 347. Ed ancora le informazioni presenti nella voce “San Maurizio“, tratta dal sito: www.wikipedia.org., ove si parla della leggendaria Legione Tebea nelle cui fila avrebbe militato il santo martire.

[27] Ancora: G.Nardoni da Ascoli, op. cit.

[28] Così: G.Nardoni da Ascoli, op. cit. Nonché si vedano in G.Devoto e G.C.Oli, op. cit., sia la voce “bando” (dal gotico “bandwa“, ossia “segno”, attraverso il latino medievale “bandum“, dal frantone “ban“), sia la voce “banno” (variante arcaica di “bando”), ad indicare poteri, avvisi ed annunci di pubblico interesse da parte di un’Autorità, oppure una pena pecuniaria o una vera e propria espulsione fisica dalla comunità.

[29] Si veda ancora: G.Nardoni da Ascoli, op. cit.

[30] Si pensi al fatto che la bandiera, di per sé, potrebbe costituire un vero e proprio simbolo solare, vista la funzione “propensiva” verso il cielo e gli astri. A tale proposito, nonché con riferimento agli eserciti persiano e dei Parti, si rimanda a quanto precedentemente detto in ambito di stendardi e vessilli ed a: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.; G.Nardoni da Ascoli, op. cit.

[31] Sul punto si veda la voce “aquila” in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[32] Per tutti si vedano gli studi di: M.Chebel, Dizionario dei simboli islamici: riti, mistica e civilizzazione, Ed. Arkeios, Roma, 1997, pag. 47 e pag. 91 e ss. Nonché sul significato dei cromatismi: C.Pagani, op. cit., pag. 180.

[33] Sul punto: C.Pagani, op. cit., pag. 175.

[34] Così: G.Nardoni da Ascoli, op. cit. E con riferimento al percorso storico della civiltà islamica: A.Hourani, Storia dei Popoli Arabi – Da Maometto ai nostri giorni, Ed. Mondadori – Storia, Milano, 1998.

[35] M.Chebel, op. cit., pag. 92.

[36] Si veda la voce “nero” in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[37] Sul punto: A.Hourani, op. cit., pag. 35 e ss. E: M.Chebel, op. cit., pag. 92.

[38] M.Chebel, op. cit., pag. 92.

[39] Ancora: A.Hourani, op. cit., pag. 29 e ss.; G.Nardoni da Ascoli, op. cit.

[40] M.Chebel, op. cit., pag. 91.

[41] M.Chebel, op. cit., pag. 91.

[42] A riguardo si veda la voce “burda” in: www.wikipedia.org. E: M.Chebel, op. cit., pag. 91.

[43] A riguardo si consultino gli incipit di: Sura LXXIII, 1. Al-Muzzammil (L’Avvolto), Sura LXXIV, 1. Al-Muddaththir (L’Avvolto nel mantello), in Il Corano (a cura di H.R.Piccardo), Ed. II – Newton & Compton, Roma, 2001.

[44] Si veda la voce “verde” in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit. Nonché: A.Hourani, op. cit., pag. 43 e ss.

[45] Così: M.Chebel, op. cit., pag. 91

[46] Ad esempio in Il Corano, op. cit., in: Sura II, 189; Sura VI, 96; Sura X, 5. E sul punto: M.Chebel, op. cit., pag. 47.

[47] Si rimanda a tale proposito alla voce “luna“: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[48] Così ancora: A.Hourani, op. cit.; G.Nardoni da Ascoli, op. cit.

[49] Sul punto, per i vessilli, ancora: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[50] Canto III, 22 – 69, in Dante Alighieri (a cura di U.Bosco e G.Reggio), Inferno – La Divina Commedia, Ed. Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2009.

[51] Si rimanda soprattutto a quanto detto in ambito persiano ed arabo poi.

[52] Sul punto si veda il saggio di: A.Cordero Lanza di Montezemolo, Lo Stemma di Papa Benedetto XVI, Ed. L’Osservatore Romano, Roma, 2005, consultabile in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/elezione/stemma-benedict-xvi_it.html

[53] A tale proposito L.Borello, L’Arma Municipale di Biella, in La rivista biellese, Anno IV, 1924, n. 4, pp. 1-5, avanza con molta cautela l’ipotesi che Biella sia stata costretta a far uso dell’orso rivoltato dal Vescovo di Vercelli Giovanni Fieschi, in seguito alla rivolta contro il potere dello stesso feudatario.

[54] A riguardo: R.Graves, op. cit., pag. 72 e ss.

[55] Sul punto: R.Guénon, op. cit., pag. 146 e ss. E più di recente le notizie rintracciabili nel fascicolo di P.Grimaldi e L.Nattino (a cura di), Dei selvatici. Orsi lupi e uomini selvatici nei carnevali del Piemonte, introduttivo alla omonima mostra promossa dalla Regione Piemonte – Laboratorio Ecomusei, Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, , esposta a Parigi e a Torino e provincia nel corso del biennio 2007 – 2008. Si vedano, inoltre, i vari rilievi etnografici a riguardo nella voce “orso” in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[56] Ancora L.Borello, op. cit.

[57] A tale riguardo si segnala emblematico lo studio sulle convergenze nell’uso della simbologia dell’orso tra Sardegna e Biellese di: B.Saiu Pinna, Una radice condivisa – La Sartiglia di Oristano, Ed. Circolo Culturale Sardo “Su Nuraghe” – Collana Ammentos, n. 11, Biella, 2007, pag. 12 e pag. 42 e ss.

[58] Sul punto si vedano le informazioni etnografiche indicate nel saggio di: P.Grimaldi, Orso pagano, orso cristiano, in AA.VV. (a cura dell’Associazione Teatro Popolare di Sordevolo), Dall’Oratorio del Gonfalone all’anfiteatro della “Passione” di Sordevolo, Ed. Lassù gli ultimi di Gianfranco Bini S.A.S., Champorcher (AO), 2005, pag. 31 – 40. E pure: B.Saiu, Animali mitici del letargo nell’iconografia ossolana. Draghi e orsi per un santo, San Bernardo al Sempione, in L.Ciurleo (a cura di), Sempione 1906 – 2006 – La sottile linea scura, Ed. Comitato “I cent’anni del Sempione”, Domodossola (VB), 2007, pag. 27.

[59] In: 2 Re, Cap. II, 24, da La Bibbia, op. cit.

[60] A tale proposito: A.Cattabiani, Santi d’Italia – Vita, leggende, iconografia, feste, patronati, culto, Ed. II – BUR Saggi, Milano, 2007, pag. 823 e ss.

[61] Così narra nei suoi Dialoghi San Gregorio Magno: A.Cattabiani, op. cit., pag. 250 e ss.

[62] Episodio narrato in: Daniele, Cap. VI, da La Bibbia, op. cit.

[63] Sul tema dell'”orso“, specie nel territorio biellese, si rimanda complessivamente a: B.Saiu, Animali mitici del letargo nella Sacra Rappresentazione di Sordevolo, in AA.VV. (a cura dell’Associazione Teatro Popolare di Sordevolo), Dall’Oratorio del Gonfalone all’anfiteatro della “Passione” di Sordevolo, Ed. Lassù gli ultimi di Gianfranco Bini S.A.S., Champorcher (AO), 2005, pag. 41 – 65.

[64] Così in: B. Saiu, Animali mitici del letargo nell’iconografia ossolana. Draghi e orsi per un santo, San Bernardo al Sempione, in L.Ciurleo (a cura di), Sempione 1906 – 2006 – La sottile linea scura, Ed. Comitato “I cent’anni del Sempione”, Domodossola (VB), 2007, pag. 27.

[65] Infatti il nome tardo latino “Bernardus” deriverebbe dall’unione di due elementi della lingua germanica, ossia il sostantivo “Bar” (orso) e l’aggettivo “hart” (forte). Così ancora in B.Saiu, op. cit., pag. 25.

[66] Si vedano le notizie a riguardo in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.; R.Guénon, op. cit., pag. 279 e ss. In particolare l’olmo è stato spesso utilizzato come pianta posta a sostegno delle viti coltivate.

[67] A riguardo si segnalano: S. Cambosu, Miele amaro, Ed.Vallecchi, Firenze, 1954, ripreso in M.Brigaglia, Il pianeta Sardegna, Ed. Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1974, pag. 24; B.Fois, Lo stemma dei quattro mori: breve storia dell’emblema dei Sardi, Ed. Carlo Delfino, Sassari, 1990; F.Sedda, La vera storia della bandiera dei Sardi, Ed. Condaghes, Cagliari, 2007. Nonché la voce “Bandiera dei quattro mori” sul sito: www.wikipedia.org.

[68] A riguardo le indicazioni di: F.C.Casula, Breve storia di Sardegna, Ed. Carlo Delfino, Sassari, 1994, pag. 174 e ss.

[69] A ben vedere San Giorgio, tuttavia, è una figura leggendaria la cui esistenza appare assai piuttosto dubbia. L’iconografia che lo vede rappresentato nell’atto di uccidere un drago, simbolo di un male potente e mostruoso, pare abbia origine proprio nel periodo che vede gli Europei Cristiani intraprendere la lotta contro l’Islam, vero e proprio “drago” o “superpotenza” del tempo, specie per mare in tutto il Mediterraneo, nella penisola Iberica ed in Terra Santa, ragione per cui la relativa devozione si diffuse rapidamente, tra i Secoli XI e XIV, in tutti i luoghi di passaggio delle armate “crociate” o cristiane, porti e Repubbliche Marinare d’Italia compresi. Ma il suo culto potrebbe anche derivare dal mondo agricolo – pastorale e dai riti di passaggio, come evincibile dalla etimologia del nome “Giorgio“, dal greco “geos” (terra) ed “orgas“, (terreno fertile), ossia il significato indicante “colui che fa rinascere la terra“. A riguardo: A.Cattabiani, op. cit., pag. 489 e ss; B.Saiu, op. cit., pag. 32 e ss.

[70] Sul punto: S.Cambosu, op. cit.

[71] A riguardo: G.G.Ortu, La Sardegna dei Giudici, Ed. Il Maestrale, Nuoro, 2005, pag. 39 e ss.

[72] In particolare anche l’odierna bandiera della Corsica, raffigurante la testa di un moro, pare risalire a questa epoca. A riguardo si vedano le fonti bibliografiche sopra menzionate.

[73] Si veda: F.C.Casula, op. cit., pag. 178; G.G.Ortu, op. cit., pag. 243 e ss.

[74] “Imperfetto” in quanto il Regno non aveva, comunque, somma potestà di stipulare trattati internazionali e si veniva ad inserire, così, nella Corona “federativa” degli Stati di Aragona. Così: F.C.Casula, op. cit., pag. 185.

[75] Ex plurimis: F.C.Casula, op. cit., pag. 179.

[76] A riguardo si rimanda alle considerazioni ed ai richiami bibliografici sopra esposti sulla devozione a San Giorgio. Nonché si segnalano i rilievi critici su tale teoria in: G.G.Ortu, op. cit., pag. 96.

[77] A riguardo si rimanda ai menzionati richiami bibliografici di cui sopra sulla storia della bandiera sarda.

[78] Relativamente a ciò si consulti la voce “Infula – ae” in L.Castiglioni e S.Mariotti, op. cit.

[79] Per i significati del termine “Infula – ae“, quale segno di regalità o come accessorio rituale, si veda ancora la relativa voce in L.Castiglioni e S.Mariotti, op. cit., nonché un aneddoto riguardo alla vita di Caio Giulio Cesare, citato in Vita Divi Iulii, I, 79, in: Caio Svetonio Tranquillo, Vita dei dodici Cesari, Ed. BUR, Milano, 2007.

[80] Ancora la voce “Infula – ae” in L.Castiglioni e S.Mariotti, op. cit.

[81] Si consulti sulle influenze bizantine sui costumi istituzionali sardi: G.G.Ortu, op. cit., pag. 21 e ss.; A.Solmi (a cura di M.E.Cadeddu), op. cit., Ed. Ilisso, Nuoro, 2001, pag. 35 e ss.

[82] Si noti che la benda sugli occhi è simbolo di’accecamento, inteso come impossibilità di cogliere Verità e l’Illuminazione spirituale. Così in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[83] Ancora: M.Brigaglia, op. cit., pag. 24.

[84] A riguardo G.C.Bascapè e M.Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medievale e moderna, Ed. Le Monnier, Firenze, 1983, pag. 317, dicono testualmente: “Per la Chiesa non si dovrebbe, a rigore, impiegare i termini di scudo o di arme, essendo vietato agli ecclesiastici l´esercizio della milizia e del porto di armi. Perciò si dovrebbe sempre parlare di simboli, di figure allegoriche ed emblematiche della Chiesa“.

[85] Il Vangelo di Matteo (XVI, 19) narra l’episodio nel quale Gesù dice a Pietro “Ti darò le chiavi del Regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra resterà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra resterà sciolto nei cieli“, in La Bibbia, op. cit.

[86] Così: M.Chebel, op. cit., pag. 94.

[87] A riguardo: A.Cattabiani, nelle opere Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Ed. Mondatori Saggi, Milano, 2003, pag. 318, e Santi d’Italia – Vita, leggende, iconografia, feste, patronati, culto, Ed. II – BUR Saggi, Milano, 2007, pag. 488.

[88] Si pensi, quale esempio, al noto episodio delle oche sacre a guardia del Campidoglio durante la discesa dei Galli di Brenno a Roma, nel 390 a.C. A riguardo si vedano i relativi richiami alla voce “oca” in: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.

[89] Si consultino ancora: J.Chevalier e A.Gheerbrant, op. cit.; R.Guénon, op. cit., pag. 56 e ss.

[90] Così: A.Cattabiani, op. cit., pag. 488.

[91] A riguardo del culto delle Madonne nere si veda con riferimento a N.S. di Oropa il saggio di: L.Aresu, Nigra sum sed formosa, in B.Saiu Pinna (a cura di), Eusebio da Cagliari alle Sorgenti di Oropa – Atti – Convegno Nazionale Biella/Oropa, 21 e 22 Settembre 1996, Ed. Circolo Culturale Sardo “Su Nuraghe” – Collana Ammentos, n. 4, Biella, 1999, pag. 285 – 294. Nonché per un’analisi più generalizzata: P.Jorio, Il culto delle Madonne nere. Le prime Madri perdute, Ed. Priuli & Verlucca – Quaderni di cultura alpina, Scarmagno (TO), 2008.

[92] Così sul punto complessivamente: B.Saiu, Animali mitici del letargo nell’iconografia ossolana. Draghi e orsi per un santo, San Bernardo al Sempione, in L.Ciurleo (a cura di), Sempione 1906 – 2006 – La sottile linea scura, Ed. Comitato “I cent’anni del Sempione”, Domodossola (VB), 2007, pag. 34 e ss.

[93] Nel caso del Sommo Pontefice Romano, nella relativa araldica, fin dai tempi antichi appare una “tiara“: essa era all’inizio un tipo di “tocco” chiuso ma a partire dal 1130 esso fu accompagnato da una corona, simbolo di sovranità sugli Stati della Chiesa. Papa Bonifacio VIII, nel 1301, aggiunse una seconda corona, durante il confronto col Re di Francia, Filippo il Bello, per evidenziare la propria autorità spirituale al di sopra di quella civile. Fu Benedetto XII, nel 1342, ad aggiungere una terza corona per simbolizzare l’autorità morale del Papa su tutti i monarchi civili, e riaffermare il possesso di Avignone. Col tempo, perdendo i suoi significati di carattere temporale, la tiara d’argento con le tre corone d’oro è rimasta a rappresentare i tre poteri del Pontefice: di Ordine sacro, di Giurisdizione e di Magistero. Negli ultimi secoli, i Papi hanno utilizzato la tiara nei pontificali solenni, ed in particolare nel giorno dell’elezione degli stessi al soglio pontifici. Papa Paolo VI usò per tale funzione una preziosa tiara regalatagli dalla diocesi di Milano, come già questa aveva fatto per Pio XI, ma poi destinò la stessa ad opere di beneficenza ed iniziò l’uso corrente di una semplice “mitra” o “mitria“, talvolta impreziosita da decorazioni o gemme, lasciandola, tuttavia, come simbolo della Sede Apostolica con le sopra citate chiavi decussate. Così: A.Cordero Lanza di Montezemolo, op. cit.

[94] A riguardo si veda il celeberrimo episodio della terza apparizione del Risorto sul Lago di Tiberiade, narrato nel Vangelo di Giovanni, XXI, in La Bibbia, op. cit., ove Cristo, chiedendo a Pietro se lo amasse per ben tre volte, afferma: “Pasci le mie pecore“. Si segnala come nei primi secoli i Papi usassero una vera pelle di agnello poggiata sulla spalla, sostituito successivamente da un nastro di lana bianca, intessuto con pura lana di agnelli allevati per tale scopo: il nastro portava alcune croci, nei primi secoli in nero oppure in rosso. Lo stesso, già nel IV secolo, era una insegna liturgica propria e tipica del Papa. Così sul punto: A.Cordero Lanza di Montezemolo, op. cit.

[95] Nella sua trattazione A.Cordero Lanza di Montezemolo, op. cit., evidenzia come il conferimento del pallio da parte del Papa agli Arcivescovi Metropoliti abbia avuto inizio a partire dal VI secolo e l’obbligo da parte di questi di postulare il pallio dopo la loro nomina sia attestato fin dal IX secolo; nella Basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, inoltre, sono presenti le effigi di tutti i pontefici della storia, moltissimi dei quali raffigurati con il pallio. Tuttora vari Patriarchi Orientali pare usino una analoga forma antichissima, molto simile al pallio, detta omophorion.

[96] A riguardo ancora: A.Cordero Lanza di Montezemolo, op. cit.

[97] Ancora: B.Saiu, op. cit., pag. 34 e ss.

[98] A tale riguardo si fa menzione di come questo santo martire del III Secolo, legionario probabilmente egiziano di Tebe, come lo stesso nome fa trapelare, sia stato rappresentato nell’iconografia come “moro” solo a partire dalla metà del XIII Secolo. In relazione a ciò si veda la voce “San Maurizio” sul sito: www.wikipedia.org.

[99] Sul punto: A.Cattabiani, op. cit., pag. 665.

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Voce “Bandiera dei quattro mori” sul sito: www.wikipedia.org.

Voce “Burda” sul sito: www.wikipedia.org.

Voce “San Maurizio” sul sito: www.wikipedia.org.

Voce “Vessillo” sul sito: www.wikipedia.org.


Nelle immagini: fucileri di Su Nuraghe durante l’Alzabandiera a Nuraghe Chervu; stemma di Papa Benedetto XVI presente sulla facciata del palazzo vescovile di Oristano.

Prossimo Alzabandiera: domenica 6 settembre, ore 12, area monumentale di Nuraghe Chervu, via Lago Maggiore, Biella.

1 commento

  1. Caro Battista,
    forse sarai contento di sentire che tra gli ospiti della Casa di Riposo di Vigliano dove, da circa 17 anni sono impegnato come volontario, io leggo una parte delle belle lettere e delle notizie che mi mandi per e-mail.
    Abbiamo uno pseudo coro, non certo di voci bianche, essendo composto di voci tutte femminili, tra i 75-80-90 anni e più. Dopo aver cantato vecchie canzoni (terapia utile a non disimparare l’azione dei muscoli che presiedono all’emissione dei suoni) intrattengo il mio uditorio con storie varie, per lo più edificanti, ma anche di carattere culturale. Molti sono contenti di ascoltarmi.
    Essendoci anche tra le assistenti un buon numero di sarde, ho parlato di te, del nostro circolo e di Nuraghe Chervu. Ho mostrato qualche foto, brani delle tue lettere ecc.
    Certo che la complessità e la lunghezza degli apprezzabilissimi argomenti come quelli contenuti nella presente e-mail, mal si prestano al mio “pubblico”, ma di qualcosa parlo, le varie correlazioni con la terra biellese, S. Eusebio (oggi ne ricorre la festa liturgica che però a Vercelli è stata celebrata ieri), Ferrero, Lamarmora, ecc.
    Così il Circolo Culturale Su Nuraghe entra anche in Casa di Riposo.

    Un caro saluto.
    Guido

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