Sardi alla Sinagoga del Piazzo, omaggio alla lapide dei deportati

Lapide presente all'ingresso della Sinagoga di BiellaDomenica 24 gennaio, a Biella, alle ore 16, auditorium di Palazzo Gromo-Losa, corso del Piazzo, 24 – dopo gli interventi per ricordare la Shoah con parole, musiche, canti ebraici e una pièce teatrale, la Comunità ebraica di Vercelli-Biella aprirà la Sinagoga del Piazzo al Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe di Biella e a tutti i loro amici, per fare omaggio alla Lapide dei deportati biellesi.

Rossella Bottini Treves,
presidente Comunità ebraiche Vercelli-Biella

Testimonianza di Paola Ovazza Voghera

Anche gli ebrei di Biella, come in tutta Italia, cercarono di nascondersi e di fuggire. I loro nomi, come risultano dalle schede di iscrizione alla Comunità e da testimonianze orali e documentali: Bachi, Basola, Calò, Cammeo, Clava, Coen Sacerdotti, Colombo, Diena, Foa, Ghiron, Jona, Lattes, Laudi, Levi, Migliau, Momigliano, Morelli, Muggia, Nissim, Norzi, Olivetti, Ottolenghi, Ovazza, Segre, Tedeschi, Treves, Vita Levi, Vitale, Weimberg, Weiss Levi.
Vogliamo ricordare le famiglie di Elvira Vitale Ovazza e della figlia Ada Ovazza Vitale, composte di sette persone, arrestate durante il tentativo di fuga in Svizzera, a Chiavenna (SO), e interamente sterminate ad Auschwitz. Su questo episodio la nipote, Paola Ovazza Voghera, ha voluto testimoniare con il suo ricordo: «Mia nonna paterna era nata a Biella e, nel settembre del 1903, aveva sposato mio nonno Michelangelo (nato a Chivasso il 14 agosto 1875), ufficiale di carriera. Dal loro matrimonio nacquero l’11 settembre 1904 a Biella i due gemelli Arnaldo, mio padre, e Mario. L’anno seguente a Cremona nacque mia zia Ada.
Mio nonno partecipò alla campagna di Libia; continuamente dislocato scriveva molte lettere piene di nostalgia per la giovane moglie e per i figli. Fu il primo ufficiale ebreo italiano caduto nella Grande Guerra e decorato con medaglie al valore. La nonna rimase vedova a 35 anni, con tre figli – due di 10 e una di 9 anni – da allevare e ai quali dare un’istruzione..
Zio Mario morì a 23 anni, in una disgrazia in montagna, cadendo dal Monte Mucrone (dove rimane una lapide in sua memoria). Mia zia Ada sposò Eugenio Vitale e andò a vivere a Genova, dove nacquero i miei cugini Sergio e Aldo. La nonna Elvira si trasferì a Milano con mio padre che, dopo aver studiato scienze commerciali, trovò un lavoro a Lissone. Papà sposò mia mamma nel settembre 1932 e la nonna rimase nella casa in cui nascemmo mio fratello e io sino al 1943.
Nel 1943, dopo i bombardamenti a Milano sfollammo tutti a Porto Ceresio. Mio padre lavorava ancora a Lissone e faceva ogni giorno in treno la spola Porto Ceresio-Lissone. Dopo l’8 settembre il pericolo per gli ebrei di venire arrestati sui treni divenne imminente e mio padre, travestito da militare, fuggì con altri compagni in Svizzera, dove attese che anche noi trovassimo la strada per raggiungerlo (e infatti così avvenne nell’ottobre 1943). Mia nonna non volle unirsi a noi per non lasciare mia zia Ada, che era ancora a Genova con la sua famiglia. Cercarono di riparare in Svizzera nel dicembre del 1943. Furono traditi da contrabbandieri, arrestati da italiani e tradotti nel carcere di Varese. Gli anziani genitori di mio zio Eugenio – Cesare e Celestina Vitale – che avevano rispettivamente 79 e 73 anni furono rilasciati data la loro tarda età, ma alla fine della giornata – dopo aver girato soli per le strade della città, non sapendo cosa fare di loro stessi – preferirono rimanere con i loro cari e si riconsegnarono al carcere. Tutta la famiglia fu poi tradotta al campo di concentramento di Calvari (Chiavari) e poi al carcere di San Vittore a Milano, ad eccezione di mia nonna Elvira che fu rinchiusa direttamente nel carcere di San Vittore.
Rimangono due lettere scritte da mia zia Ada dal campo di Calvari con la descrizione delle loro difficili condizioni. A una delle lettere è allegata una supplica da lei rivolta alle Autorità – in quanto moglie di mio zio Eugenio – capitano degli Alpini e orfana di mio nonno Michelangelo caduto per la patria nel 1915 – affinché la nonna Elvira, già all’epoca sofferente di dolori alla gambe, venisse riunita al resto della famiglia.
Il 30 gennaio 1944 tutti i nostri cari furono trasferiti da San Vittore alla Stazione Centrale di Milano e caricati su un treno merci: destinazione Auschwitz. La nonna riuscì a gettare dal treno una cartolina diretta a una nostra cugina cattolica con queste parole: “…L’avviso che sono con Ada e famiglia di partenza per l’Alta Slesia. È con me anche Emilia di Umberto [Emilia Vitale]”. Questa cartolina è custodita da noi gelosamente e le mie nipotine più grandi l’hanno allegata al loro lavoro scolastico Shorashim (Radici), che viene svolto nelle scuole israeliane dai giovani a 11 anni. Mio padre Arnaldo, che aveva ricevuto in Svizzera l’angosciante notizia dell’arresto dei suoi cari, tornato in Italia cercò per anni per tutte le vie un modo per rintracciarli – sembrava che Sergio e lo zio Eugenio non fossero stati uccisi subito all’arrivo ad Auschwitz e che qualcuno dei sopravvissuti li avesse incontrati. Ricordo un baule che conteneva tutta la corrispondenza di mio padre alla ricerca dei suoi cari. Nessuno è tornato.»

Ramat Gan (Israele), aprile 2008

Paola Ovazza Voghera

Nell’immagine: Lapide presente all’ingresso della Sinagoga di Biella e testo di Paola Ovazza z.l.

3 commenti

  1. Altra ” bella” guerra ed altri orrori.
    Possibile che l’unico responsabile della caccia agli ebrei in Itali fosse solo Mussolini? Suvvia…
    Dittatore si, imbecillotto anche, ma responsabile di tutto mi sembra eccessivo.
    Nessuno ha intenzione di sollevarlo da responsabilità o peggio ancora di assolverlo però che abbia fatto tutto da solo, non ci si crede.
    E’ stato detto che la sua morte ci abbia sollevato da una Norimberga italiana invece proprio la sua morte avrebbe dovuto causare la Norimberga italiana.
    Gli italiani, fra l’altro come si è visto in Africa non siamo proprio farina da fare ostie.

    Passando ad altro…
    Non ricordo dove né quando a Torino ebbi il piacere di conoscere una della fam. Ovazza.

    Saluti
    G. Elies

  2. Gent. Su Nuraghe
    Colgo l’occasione, giacché in questi giorni cade la “giornata della memoria”, per inviare una poesia sentitissima dedicata ai poveri prigionieri austroungarici che furono relegati all’Asinara.
    Non è faziosità, la mia: e’ che gli uomini, tutti gli uomini, una volta prigionieri diventano ” stracci”.
    Durante la Manifestazione del Premio Osilo dello scorso anno,
    Premio vinto dal testo ” Il grande sacrificio” curato ed edito da Giovanni Gelsomino, intervenne il dott. Giulio Cossu.
    Ricordo, quasi con ansia, il suo intervento prima della premiazione
    per raccontare le tristissime (questo vocabolo è un eufemismo) condizioni di prigionia alleviate, in qualche misura,i dagli abitanti di Stintino e Portotorres.
    La cronaca della Storia ci viene in aiuto e ci ricorda che, molto spesso, tutte le popolazioni locali hanno aiutato a vivere, meglio sarebbe dire assistito, i prigionieri.

    Saluti,
    G. Elies

    “Prisgioneri” vuole ricordare la tristissima vicenda dei prigionieri austro-ungarici che, dopo essere stati decimati dalle malattie e dalla fame, vennero rinchiusi all’Asinara al termine di una lunghissima marcia attraverso i Balcani e di un faticoso viaggio per mare.

    PRISGIONERI
    (Prof. Mario Marras)

    Longa
    una prussizzioni d’isthrazzi
    in chiza d’ommini:
    baddiggi e monti
    abemmu attrabissaddu
    noi,
    li nimigghi
    fatti prisgioneri.
    E abemmu siminaddu
    in la nebi
    chirriori di noi,
    ipussididdi
    da la maraddia
    e isthragaddi
    da la fammi niedda.
    E trasginaddu z’hani
    finz’a un mari luntanu
    e ammuntunaddu
    sobr’a nabi isthragni
    e gittaddu
    in una terra aresthigga
    e ischunniscidda,
    Asinara.

    Tandu semmu turraddi
    ommini
    in mezz’a l’ommini,
    saivendi un firuscenu
    di digniddai e d’ipera.
    Chissa digniddai
    e chissa ipera
    chi l’ingannu
    d’una gherra ifidiadda
    e cegga di bramusia
    zi n’abia buggaddu
    la dì chi cun lu cori a pezzi
    semmu parthuddi.

    PRIGIONIERI
    Lunga una processione di stracci con sembianze umane: valli e monti abbiamo attraversato noi, i nemici fatti prigionieri. E abbiamo seminato nella neve brandelli di noi, spossati dalle malattie e distrutti da una fame nera. E ci hanno trascinato fino a un mare lontano ed ammucchiato su navi straniere e gettato in una terra selvaggia e sconosciuta, Asinara. Allora siamo tornati uomini tra gli uomini, salvando un briciolo di dignità e di speranza. Quella dignità e quella speranza che l’inganno di una guerra spietata e accecata dalla bramosia ci aveva tolto il giorno che, con il cuore a pezzi, siamo partiti.

  3. Vi ringrazio per aver dato spazio al mio componimento, che, insieme ad altri nove, fa parte di una piccola silloge sulla Grande Guerra. Il conflitto mondiale ha sempre lasciato in me un solco profondo, alimentato dalla pietà per tutte le vittime e dall’orrore per la tragedia immane. Avendo fatto il servizio militare a Bellinzago Novarese nel 31° Rgt. carri, nel 1974 sono stato a Biella per una celebrazione ed ho incontrato un mio concittadino, il cav. Antonio Erre, invalido di guerra (era privo di un braccio), del quale ho un bel ricordo ed anche una foto, che custodisco ancora.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.