Una parola sarda al mese: B come BABBAY

Die ac Nocte, incipit BBABBU. Questo termine pansardo significa ‘padre’ ed ha l’eguale soltanto nel toscano: babbo, voce tosca d’origine sarda.
Babbu indica pure il Padre Eterno. Nelle carte medievali (CSP 15, 262; CSNT 15,63; CSMB 33) prevaleva patre per designare il proprio padre, almeno nelle donazioni ufficiali dei Giudici, i quali evidentemente, nell’aulicità delle scritture, tolleravano che i preti-amanuensi (di cultura latina) forzassero certi vocaboli sardi ad esiti còlti (latineggianti).
Oggi si è tornati a dire babbu sia per il Padreterno sia per il padre carnale. La stessa attualità notiamo per babbáy, e la Sardegna appare quasi divisa in due: da una parte si dice babbu, dall’altra babbáy; altrove la gente alterna indifferentemente i due vocaboli.
Babbu è pure parola accadica (come vedremo), ma babbay è il vocabolo primario dei Sardi fin dal primo balbettìo del linguaggio (almeno da 100.000 anni). Per la sua importanza, viene esteso anche a nominare gli uomini vecchi, i preti, i medici.
BABBAY affonda nella Lingua-Madre-Mediterranea, è la maschilizzazione del sumerico Babay o Baba, che indicava la Gran Madre Creatrice dell’Universo (omologa all’Astarte fenicia). Anche nella mitologia baltica c’è la dea Baba Yaga, che gli antropologi ricordano essere l’antichissima dea slava della morte e della rigenerazione. I linguisti di quell’area sostengono che l’etimo slavo baba significa ‘nonna’, ‘donna’, ‘pellicano’. Quest’ultimo etimo si lega alla natura aviaria di Baba Yaga, paragonabile all’archetipo della dea-avvoltoio o della dea-civetta della preistoria europea (e mesopotamica), che personifica la morte e la rigenerazione (Gimbutas 281).
In Sardegna notiamo la strabiliante trasformazione dell’appellativo babay, inizialmente femminile poi maschile. E si comprende perché la parola babbu e l’omologa babbay conservino ancora, in Sardegna, l’aura di religioso rispetto che si deve al padre, e parimenti a Dio.
Non a caso Babáy è uno degli appellativi del Sardus Pater (il Dio epònimo dei Sardi) venerato nel tempio punico-romano di Antas, la cui base etimologica è il sumerico babaya < ba-ba-ya ‘old man, uomo anziano’.
Col passare dei millenni il sardo-sumerico Babáy fu affiancato lentamente dall’accadico abu ‘padre’, senza esserne fagocitato; anzi fu l’accadico abu a perdere l’integrità per aggiunta della b- che lo aspira nel campo fonetico di babbay. Da quel momento convissero in Sardegna sia babbay sia babbu, e la convivenza prosegue ancora.
Ma l’avvento dell’accadico aveva messo in progressiva competizione il sd. babbu pure con l’accadico bābu ‘piccolo ragazzo, bambino’ (vedi ingl. baby), e persino con bābu ‘porta’. La coesistenza di 3 omofoni portò ovviamente, durante i secoli, ad espellere dalla parlata sarda i concetti omofonici di ‘bimbo’ e di ‘porta’.
Le vicende dei due vocaboli sardo-sumero-accadici sopravvissuti si sono ulteriormente complicate con l’ingresso impetuoso del Cristianesimo in Sardegna (VI secolo d. C.). I preti avevano ordini perentori: ogni e qualsiasi propensione religiosa alla luce, al fulgore, all’immensità doveva essere forzosamente capovolta nel buio, nell’orrore, nell’isolamento dell’Umanità braccata dal Male. Tutta la storia pregressa fu presentata come Il Male. E così Babbu-Babbay, gli epiteti dell’Immensità Creativa Generatrice del Fulgore e dell’Energia Cosmica, finirono per indicare esclusivamente su Babbói, l’uomo nero, il mostro delle tenebre che assale i bimbi divorandoli. Questo nome truce richiamò nell’uso anche l’obsoleto accadico bābu ‘ingresso, porta, entrata’ nelle Paludi Fangose, nelle profondità dell’Abisso: l’Apsû. Quest’ultima parola è arcaica, risale ai tempi in cui si credeva che l’uomo non purificato dai Misteri sprofondasse, morendo, nei primordiali abissi tetri e paludosi (apsû); mentre l’uomo purificato si salvava unendosi al Noũn, al dio Unico.
BABBAYÈCCA. Epperò il senso religioso di babbay non era mai venuto meno, e si conservò pure nella babbayecca, l’uccisione del genitore anziano. In Campidano sussiste la parola babbayecca, ‘uccisione del genitore’ ultrasettantenne. Segno che la tradizione è rimasta finora latente persino nelle parole dell’uso. Babbayecca ha basi etimologiche sumero-accadiche, e significa letteralmente ‘orfano del padre’, o ‘lutto per il padre’. Ma può anche significare ‘privarsi del padre’ (akk. ekû ‘impoverito, orfano, in lutto’). Come si vede, la parola è abbastanza “gentile”, ma dietro la gentilezza s’asconde il dramma del parricidio, della fine del genitore decrepito. Si noti: fu sempre un parricidio, non un matricidio. La madre, sia pure malandata in salute e improduttiva per la società, fu sempre rispettata, perché in lei si conservava il Principio della Vita, era la figura della Veneranda Genitrice, di Colei che creò il Mondo e che continua a donare la vita al Creato.

Salvatore Dedola

Nell’immagine: l’incipit B alla p. 275, Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009

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