Febbraio, una parola sarda al mese: P come PAPEROS

incipit P, in Giampaolo Mele, Die ac NocteRadici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella

PÁPEROS (donnos páperos) nel Medioevo sardo sono i ‘vassalli’ del giudice o i ‘membri della famiglia reale’, o genericamente il ‘patrimonio della corona’ (li troviamo citati nel Codice di San Pietro di Sorres: 25, 34, 37, 38, 43, 65, 297, 300, 303, 304, 305, 342); una volta si legge pauperos. Una sola volta occorre in un documento cagliaritano del 1119 (CDS I, p. 198b) in forma latina: servos de pauperum. La parola s’incontra solo in documenti del sec. XI o dei primi del XII (Bonazzi, ed. CSP, p. 156). I donnos paperos ricordati dal CSP 34 sono precisamente i monaci di S. Pietro (pag. 58 dell’estratto). D’altronde la voce pauperes indica in numerosi documenti esattamente i poveri ed i degenti (CDS, p. 226b, anno 1164): ad sustentationem pauperum; ibd p. 244a (sec. XII): sa eclethia paupera; p. 251a, 252b (anno 1182): ab alimentis istorum pauperum (Solmi, Cost., p. 47, n. 4). (Tutto quanto precede è stato scritto dal Wagner, e il lettore attento si sarà già accorto della confusione da lui prodotta nell’intera questione).
Il termine páperu applicato ai ricchi del Giudicato sembrò strano a Wagner. E nemmeno lo turba il sapere dai giuristi delle materie medievali che a quei tempi si contrapponevano ai ricchi (ai maiorales) tre classi sociali: i servos, i liberos, i pauperos (ma non i paperos). Egli si chiede disperato «In séguito a quali circostanze i liberos si identificarono con i pauperos?». Come si nota, l’equivoco e la confusione tra gli studioso moderni sono di casa, fanno groppo, divengono commedia esilarante. Un equivoco-confusione persistente infine tra gli aggettivali pauperile e paberile (quest’ultimo interpretato oramai come “terreno proprio dei pauperes, che essi possedevano a titolo collettivo”: «Erano precisamente i terreni che si chiamavano anche terras de páperos» (Wagner): si noti la solita confusione tra pauperos e páperos. La confusione tra queste due parole grava sugli studiosi contemporanei come un macigno, e nessuno si scuote nel constatare che in sardo moderno l’aggettivale paborile significa semplicemente ‘pascolo, maggese’, e che soltanto qualcuno (es. il Guarnerio, il Solmi) identifica questo con lat. pabŭlum ‘terreno agrario’ (sbagliano però anche loro due).
Invero, su paberìle era la terra coltivabile di un villaggio (vidatzone) però messa a riposo annuale o biennale (da qui il significato di maggese), e diventata prato domestico (che è diverso dal pardo naturale) a disposizione, in comunione gratuita, degli abitanti ad uso pascolivo. Si trattava di campi non riseminati, dove si poteva pasturare il bestiame controllato da speciali incaricati chiamati maiores de pradu o pradàrgios. Questi diritti reali pubblici assunti per consuetudine si chiamarono, in epoca iberica del Regno di Sardegna, ademprìvi, e furono aboliti in epoca sabauda con la legge sulle chiudende (6 ottobre 1820) e col regolamento della divisione dei terreni (26 febbraio 1839): Francesco Cesare Casula, Di.Sto.Sa. 1140.
Quando si dice incantesimo… Tornando al pl. páperos, Wagner s’incantò a tal punto sulla identità di sd. páperu con lat. pauper ‘povero’, che chiuse le tre lunghissime pagine di disamina del problema con una dichiarazione ultra-salomonica, giungendo a squartare con una sciabolata il bimbo che Salomone aveva soltanto minacciato: «Come già fu detto, l’accezione giuridica di páperu si è perduta, ma nel senso ordinario di ‘povero’ la voce vive tuttora nel camp. rustico come pábaru, páburu. È diventata ormai rara, ma l’abbiamo notata a Cabras; e cinquant’anni fa, l’abbiamo sentita giornalmente da un povero cieco, nativo del Campidano di Oristano, il quale, sulle Scalette di Santa Chiara a Cagliari, mi soleva chiedere l’elemosina con la sua cantilena monotona, ma molto chiara: Po s’amòri de Déusu, sa garidari po unu báburu tsurpu».
Al fine di rompere l’incantesimo di tale immarcescibile equivoco-confusione (che dura da oltre un secolo), dichiaro che l’aggettivale paberìle, poborìle, paborìle ha base etimologica nel sumerico pa ‘fronda’ + be ‘tagliare’ + ri ‘camminare lungo (pascolare)’ + li ‘fronda, germoglio’: pa-be-ri-li. Il significato originario fu ‘pascolo per brucare i germogli’. Tutto qui. Gli armenti del villaggio avevano un anno di tempo per brucare i germogli di quei terreni, sortiti direttamente dai semi delle coltivazioni dell’anno precedente (grano od ortaggi). Quello del paberìli era dunque un pascolo speciale, molto diverso da quello del saltu, sartu (vedi), composto di flora selvatica meno appetita dalle pecore: infatti a su sartu si mandavano soltanto capre, maiali, bovini, che si consolavano con le frasche della macchia e con le fronde degli alberi.
Quanto all’etimologia di (donnos) páperos, essa si basa sul sumerico pap ‘primo e più importante’, ‘preminente’ + era ‘leader (dell’assemblea)’: pap-era. Il significato è ovvio: gli antichi “nobili” erano chiamati páperos né più né meno come i pennuti che avanzano sicuri, dondolanti, pettoruti e schiamazzanti. Anche Wagner l’avrebbe capito, se non si fosse incantato sulla pregiudiziale latina.

Salvatore Dedola,
glottologo-semitista

Nell’immagine: l’incipit “P”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009

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