Una parola sarda al mese: D come DEÌNA

l'incipit D, in Giampaolo Mele, Die ac NocteRadici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella

DEÌNA in logudorese e nuorese indica attualmente la ‘(donna) veggente’. Dolores Turchi (Lo Sciamanesimo in Sardegna, p. 15) traduce il termine alla stregua dell’italiano ‘divina’: «erano veggenti stimate e temute allo stesso tempo, anche se si cercava di non dare loro troppa confidenza; altre invece erano ritenute esseri malefici, donne che durante la notte si trasformano in insetti o gatti, per introdursi nelle case in cui vi erano dei neonati e succhiarne il sangue».
Mario Puddu per deínu intende ‘omini ki nanca scit o ingertat su benidori, cosas ki no at bίu, agiummái coment’e ki siat unu deus’, insomma lo presenta come ‘indovino’.
La stessa Turchi in altra parte del libro sostiene che le deìnas, chiamate pure orassionárias, sono donne che pretendono di guarire certe malattie “per mezzo di orazioni” (anche qui si noti la traduzione all’italiana).
Duole constatare che negli studi sardi vige una rigida autarchia, l’erudizione “a una dimensione”, ed ogni studioso crede di bastare a se stesso, senza bisogno di attingere ad altri campi d’indagine. In tal guisa Dolores Turchi, che pure è la migliore antropologa che la Sardegna abbia mai avuto, rimane irretita nella tela di ragno tessuta da stuoli di “indoeuropeisti” e da altrettanti stuoli di filologi romanzi, i quali battono la grancassa di una lingua sarda derivata direttamente dal latino (persino dal solo italiano!), con qualche concessione alla lingua ed alla civiltà greca, della quale è innamorata la Turchi. Queste rigidezze post-romantiche hanno devastato la cultura mediterranea, e l’idea dell’Impero Romano onnivoro che fagocitò ogni trama culturale nonché l’idea di una Civiltà (quella greca) totalizzante e unidirezionale, hanno tarpato le ali ad ogni e qualsiasi libertà di ricerca.
Queste inveterate cecità hanno impedito ai ricercatori più promettenti di scorgere la vera base etimologica di deìna, che è il sumerico de ‘formare’ + inim ‘parola’, col significato di ‘(colei che) formula parole, versetti’. Ci vuol poco a capire che per deìna, prima del Cristianesimo, s’intendeva propriamente la Sibilla. Anche la Sardegna aveva la sua. Non solo. A quei tempi era così variegata la cultura sarda (in virtù delle numerose partizioni tribali), che pure la lingua era oltremodo variegata, un po’ come la è ancora oggi. Talché la Sibilla in Sardegna aveva otto nomi diversi, che poi furono quasi tutti celati e “incartati” gelosamente entro medioevali nomi di donna, oggi diventati cognomi.
Peraltro il popolo non aveva altro mezzo di difesa contro lo strapotere bizantino, se non di tramandare la memoria dei riti almeno mediante il nome delle figlie. Infatti dopo Teodosio anche le deìnassibille furono prestamente perseguitate dallo stuolo di preti e monaci cristiani insediati in Sardegna, e le fu addossato il ruolo malvagio che poi fu istituzionalizzato dall’Inquisizione. Il clero pretese d’instillare nella credenza popolare che queste oneste signore si trasformassero persino in gatti per succhiare nottetempo il sangue dei neonati. Fu a quei tempi, sempre ad opera della Chiesa, che cominciò a maturare l’orribile mito di Dracula, il quale fu romanzato soltanto nel 1897 da Bram Stoker. Questa fu una delle innumerevoli nefandezze che – etimologia dopo etimologia – ho riportato alla luce nel libro Monoteismo Precristiano in Sardegna e nell’altro libro I Cognomi della Sardegna.
A chi non avesse tempo di leggere i due volumi, regalo di seguito gli altri sette nomi (cognomi) relativi a questo grande fenomeno isolano: Bangoni significò ‘vergine dell’oracolo’ (da sumerico bangi ‘responso’ + unu ‘ragazza’). Massenti significò ‘alta sacerdotessa in preda al furore oracolare’ (da accadico maḫṣu ‘presa da entusiasmo divino’ + entu ‘alta sacerdotessa’). Samarelli significò ‘colei che dà le profezie’ (accadico šamāru ‘essere furioso’ + ellu ‘sacro’). Scanu significò ‘donna dell’estasi’ (da accadico šēḫānu). Tota, Toti significò ‘sacerdotessa dell’incantesimo’ (da sumerico tu ‘incantesimo’ + tu ‘sacerdotessa’). Infine il cognome Sibilla, anch’esso sardo, deriva dall’accadico šību ‘donna vecchia’ + sumerico illu ‘canto’: significò ‘vecchia che canta’, per il fatto che tutti i responsi erano cantati in versetti. E si sa che le sibille, dopo il primo periodo in cui si preferirono le vergini, furono sostituite con donne vecchie ad evitare che il petente – come spesso accadeva – venisse assorbito dal raptus liturgico e violentasse la donna.

Salvatore Dedola,
glottologo-semitista

Nell’immagine: l’incipit “D”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009

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