Emigrazione e “tenores”, il presente della tradizione

I lavori del 12° Convegno Emigrazione in Sardegna, “Rundines, il fenomeno di Domusnovas Canales“, svoltosi a Norbello (Oristano), martedì 11 agosto 2009, si sono conclusi con due canti proposti da Su Cuntzertu Abasantesu. Per l’occasione, Felice Cau, “oghe” e poeta della formazione canora di Abbasanta, ha composto un apposito sonetto, ispirato al titolo del Convegno: “Rundines“. Infine, i Gosos de N.S. de Oropa, lodi a Maria Regina dei Monti biellesi, composti in lingua sarda nel 1996 in occasione dell’Anno eusebiano indetto dall’arcivescovo di Vercelli.
manifesto del convegno di Domusnovas CanalesSegni consueti, usanze che si ripetono e che testimoniano come la tradizione sarda si rigeneri continuamente nel presente, attualizzandosi. Radici che affondano nella plurimillenaria storia dell’Isola continuano ad alimentare il presente senza interruzione di continuità.

Rundine chi donzi ‘orta festosa
Fidele torras a s’antigu nidu
Su nidu chi pro primu ti at bidu
E ti at pesadu cun mama amorosa

Et oe in Domosnoas, orgogliosa
Cuntenta as cumpridu su cumbidu
Atera rundine puru as batidu
Chi pro sa festa de oe fit bramosa.

Domosnoas ti nd’e podese ‘antare
Pro su bellu modu chi afestas
Cun ballos et tenores canta canta

De nou oe ti cheret saludare
(ca sintzeru s’amore manifestas)
De coro su “Cuntzertu de Abbasanta”
.

La tradizione, ancora viva e vitale in Sardegna, continua a riprodursi e a produrre, a rigenerarsi fedelmente su canoni immutati. Forse, proprio per questa abbondanza, l’etnomusicologia è arrivata assai tardi nella nostra Isola. Nonostante l’abbondante messe, poco è stato scritto sul canto in Sardegna, ancora meno su quello “a tenore”, un particolarissimo modo di cantare, il canto più antico della Sardegna, una sorta di “gregoriano arcaico, quello che più intensamente ha portato in tutto il mondo la voce dell’identità isolana.
Parziali, a volte sommari, gli studi sul rapporto tra canto in Limba, religione e religiosità popolare, nonostante il canto sardo permanga e resista in ambiente sacro nelle diverse varianti vernacolari, con nicchie in cui la lingua sarda cede il passo al catalano antico come le lodi alla Vergine dormiente (Nulvi).
In Sardegna la poesia non è mai recitata o declamata, bensì cantata, sempre. Alcuni ricordano il saluto carico di pathos nella forma prima che nel contenuto, intonato dal dott. Sebastiano Cabiddu, direttore dell’INPS di Biella, per l’apertura dei festeggiamenti del decimo anniversario di fondazione del Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe (1988). Innumerevoli le composizioni preparate dai poeti dell’Associazione sardo-biellese per le diverse occasioni, da un semplice incontro conviviale a un’importante ricorrenza.
Poco scandagliati i rapporti tra clero e canti in sardo, nonostante la “colonna sonora” dei riti della Settimana Santa, o la processione con il simulacro della “dormitio Mariae” di pochi giorni fa ad Orgosolo e in molti centri dell’isola siano ancora decorati da preghiere cantate in sardo, con il sacerdote che intona e a cui fanno eco le voci alternate di donne e di uomini che, con viva partecipazione, cantano in coro. Le melodie del canto che accompagna il simulacro della Vergine dormiente o quello del Cristo morto, ritmano il passo di uomini e animali. Riti solenni, sempre composti. Nessuna distrazione per la presenza di cavalli o per gli splendidi coloratissimo abiti tradizionali della festa indossati da tutti.
Anche a Biella, dall’Anno giubilare (2000), si ripete “Su Rosariu cantadu“, intonato a San Sebastiano, tempio civico della Città, nelle chiese e negli oratori intitolati a Sant’Eusebio da Cagliari o in occasione del rito funebre di accompagnamento di Soci scomparsi. A guidare la preghiera, il cappellano di Su Nuraghe don Ferdinando Gallu con l’attesa e puntuale catechesi in Limba.
Sempre a Biella, su specifico invito del canonico Giovanni Saino, già rettore per 24 anni del Santuario Eusebiano Alpino di Santa Maria di Oropa, in occasione della celebrazione della prima notte di Natale (1997), presso il Santuario di San Giovanni d’Andorno da lui riattivato, venne fatto arrivare dalla Sardegna Su Cuncordu Lussuzesu di Santulussurgiu (Oristano), per decorare la solenne cerimonia con antiche melodie in “gregoriano arcaico”, volutamente intonate – non a caso – presso uno dei cuori battenti dell’identità biellese non solo cristiana.
Luogo sacro da sempre, come dimostra il toponimo del rio Bele che scorre a monte del santuario, con rimando a “Belenos”, divinità pastorale, il luogo è stato successivamente cristianizzato proprio attraverso la figura di San Giovanni.
Il Gloria e il Sanctus eseguiti nell’occasione vennero tratti dall’Ordinarium Missae lussurgese, mentre l’Agnus Dei da quello dalla Missae Corsica; Su Ninniu, dalla tradizionale lussurgese.
Qualche anno prima, in occasione dell’Anno eusebiano (1995), indetto dal cardinal Tarcisio Bertore (all’epoca arcivescovo di Vercelli), sono state composte le sestine dei “Gosos de N.S. de Oropa”. Intonate per la prima volta dal Coro di Pozzomaggiore (Sassari) e da allora cantate dei Sardi di su disterru, proposte oggi da Su Cuntzertu Abbasantesu al Convegno di Domusnovas Canales.
Un fatto che si è ripetuto e si ripete, come usano i cantori delle “gare poetiche”, gli improvvisatori e, principi nel canto, i poeti del canto a tenore. Così era nel mondo classico e nell’Europa della poesia cavalleresca.
Inoltre, in Sardegna è rimasta la consuetudine di addobbare i palchi in cui si esibiscono “sos cantadores” con frasche di mirto o di alloro come in Grecia e nella Roma antica, dove i poeti e i letterati venivano premiati con corone intrecciate con questi vegetali.

Battista Saiu

Tenores, tra mito e storia

Il canto a tenore è diffuso solo nella fascia di territorio compreso tra la Bassa Baronia, Orune e le sue zone interne, i paesi del Supramonte con al centro Orgosolo, il Marghine e sa Costera, fino a Bosa e al Montiferru. Secondo quanto sostiene Andrea Delpiano nel suo “Tenores, canto e comunicazione sociale in Sardegna” (Cagliari 1994), il canto a tenore sarebbe nel suo insieme l’imitazione dei suoni della natura e della solitudine dei pascoli. Le voci dei componenti ricorderebbero nel “Basso”, il muggito del bue; nella “Contra”, il belato della pecora; nella “Mesu ‘oghe”, il suono del vento.

La Sardegna – inserita nella Settima provincia dell’Esarcato d’Africa con capitale Cartagine – ha ereditato e conserva legami culturali con il mondo cristiano orientale. Delpiano ci informa che “Stando alle testimonianze di Flodoardo di Reims, si sa che i Sardi accolsero con un canto l’imperatore bizantino nel 931 e poiché allo stesso periodo risale anche la trascrizione di quei canti ad opera di Costantino VIII Porfirogenito (911-959), pervenuta nella traduzione fatta da Camillo Bellieni, è facile supporre che in Sardegna esistesse già all’epoca una forma di canto che si basava su un particolare modo di comporre ancora in uso fra i poeti isolani“.

Il Bellieni indica in 300 unità il numero di soldati sardi componenti la Guardia imperiale e traduce il testo del canto tramandato da Porfirogenito in lingua greca. Una consuetudine che in qualche modo rimanda al papiro di Wilbour del tempo di Ramesses V (1145-1141 a.C.) in cui gli Shardanw sono citati come guardia del corpo dei Faraoni (così come i Saraceni furono la guardia del corpo dell’Imperatore Federico II di Svevia e svizzere sono le guardie del Papa).

Partendo da queste testimonianze si può pensare che quel tipo di composizione sia stato messo a punto nel corso dei secoli e sia dunque di antichissima, quanto ignota origine.

L’esecuzione nel canto di testi così elaborati fa pensare a un meccanismo innato nel cantore sardo e data la difficoltà di esecuzione non è azzardata l’ipotesi che questa forma di composizione poetica, e dunque canora, sia in realtà più antica della data indicata da Porfirogenito. Se questo venisse provato si riscriverebbe anche la storia della letteratura sarda: letteratura che, almeno sul piano popolare, dovette avere una produzione assai florida in tempi che rimangono oscuri per mancanza di documenti.

Di sicuro i Sardi del periodo subito successivo la caduta dell’Impero romano e già sotto la dominazione vandalica producevano largamente testi popolari che si arricchirono maggiormente di forme e di contenuti nell’epoca di papa Gregorio Magno e della prima organizzata penetrazione religiosa dell’Isola.

Le lettere inviate da questo papa ai Sardi non testimoniano una conoscenza diretta dell’Isola e dei suoi abitanti ma dai toni usati traspare, da parte di Gregorio Magno, una conoscenza approfondita degli usi e dei costumi degli abitanti dell’isola e in particolare dei Barbaricini. Aveva imparato a conoscerli durante il suo soggiorno a Costantinopoli? Se così fosse, aveva conosciuto i componenti della Guardia imperiale già prima del 600 e non sarebbe pertanto azzardato ritenere che alla base dell’opera di codificazione della musica da parte di questo papa, ci sia in realtà il canto dei Barbaricini“.


Nell’immagine: manifesto del convegno di Domusnovas Canales.

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