Marzo, una parola sarda al mese: R come ROSA

Radici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella

incipit R, in Giampaolo Mele, Die ac NocteROSA è il nome di uno dei fiori più belli del mondo, chiamato così anche in Sardegna fin da tempi arcaici, a dispetto di quanti ne marcano l’origine nel lat. rŏsa, il quale è semplicemente un nome condiviso nel Mediterraneo e nel Vicino-Oriente al pari di quello sardo. Questo fitonimo è così noto che in Sardegna sortì anche come nome personale, ed alla fine, dopo millenni, ce lo ritroviamo persino concrezionato nel cognome: Rosa, Rosas, Derosas. Tutti i linguisti indogermanisti richiamano come base del termine il lat. rōsa, la cui matrice sarebbe, secondo loro, il greco ρόδον, cosa impossibile, quest’ultima, essendoci una -d- troppo lontana dalla -s- originaria.
In verità il sardo (e latino) rosa ha base nell’accadico rusû(m) (un genere d’incantesimo); l’ascendente sumerico è ru ‘architettura’ + sa ‘legame’, ‘rete (da caccia)’, col significato di ‘legame, rete (tramata) per legare’. Insomma, il nome-cognome Rosa contiene in sé uno dei significati più poetici dell’antichità.
In Sardegna il nome andò a definire anche dei pani, ai quali evidentemente fu data fin dall’inizio valenza sacrale.
Ad esempio, a Tresnuraghes si confeziona un pane detto Rosa de crebu: un pane semiduro lucido, di semola scelta, che sortisce alle feste ed alle grandi occasioni: gli si dà forma di cometa, con sovrapposti due fiori a sei petali, molto semplificati, simili alla stella alpina. Oggi s’interpreta crébu dal catalano creu ‘croce’ con riferimento a un fiore che secondo loro sarebbe una crocifera, la quale è molto lontana dalla rosa. A tale punto è giunta la cancellazione della memoria storica e la dipendenza da una colonizzazione che durò pochi secoli! Invero, Rosa de crebu ha per base l’accadico rusû(m) (evidenziato quassù) + qerbu(m) ‘utero’. Va da sé che il pane fu sin dall’inizio beneaugurante, ed era confezionato per le spose o per le puerpere, come gesto sacrale di buon augurio: il suo significato è ‘Incantesimo per l’utero’; e sì che nel passato ce n’era bisogno, con le enormi morie di bimbi che difficilmente riuscivano a tenere in equilibrio il livello demografico.
Una controprova l’abbiamo nell’altro pane detto Rosa de Gérico. Lo si nomina così senza spiegare perché debba rappresentare una rosa, la quale poi dovrebbe essere di Gérico (l’antica città cananea). La paronomàsia, una legge fono-semantica cui il popolo soggiace suo malgrado, può far volare la fantasia sino a città lontane e misteriose, presso le quali, poi, la ragione non trova ristoro.
In ogni modo la questione è tutta sarda, ed ha ricevuto l’attenzione persino dagli antropologi. E allora lascio la parola a Dolores Turchi, stando alla quale questa “Rosa” è considerata un fiore reale (Anastatica hierocuntica: a tanto giunge la ricerca delle giustificazioni!), presente allo stato di appassimento (sic) entro una profonda forra situata in Olièna presso l’alta rupe di Ortu Camminu, uno sperone dolomitico alto 1300 m che guarda a Nord-Ovest, il quale (sia detto tra di noi) è totalmente privo di humus ed è persino incapace di ricevere i raggi necessari alle rose. Soltanto i giovani avventurosi possono accedere a questa rosa la notte di San Giovanni, a mezzanotte in punto (sic!), senza bisogno di calarsi con le corde e, aggiungerei, senza bisogno di avere la vista felina. Va da sé che la Turchi sta raccontando un mito, con tutte le sue contraddizioni. «Se una donna doveva partorire si andava alla ricerca della Rosa di Gérico, facendosela prestare dalla fortunata famiglia che la possedeva. Quando le doglie si facevano più frequenti s’immergeva la rosa secca in un bicchiere d’acqua. A poco a poco, nel giro di 40-50 minuti, i rametti si allargavano, si separavano e infine si aprivano del tutto, mettendo in mostra una stranissima pianta legnosa simile a un fiore. Da questa rosa venivano tratti gli auspici. Se il parto si svolgeva felicemente la rosa arrivava alla sua massima espansione ed era il momento in cui la donna partoriva; se invece il parto presentava delle complicazioni, la rosa stentava ad aprirsi o non si apriva affatto. In tal caso si credeva che la madre o il bimbo sarebbero morti. Le attittadòras, cioè le donne che eseguono i canti funebri, quando piangevano le giovani spose morte di parto, non mancavano di inserire nei loro canti.

Sa Rosa e Gérico
Ispartu no b’at no,
vattìa dae su sartu…
in goi no b’ad’ispartu»

La Rosa di Gérico
non si è aperta
portata dalla montagna…
in questa casa non si è aperta.

In tale contesto, si acclara ed è ovvio perché le sposine confezionino o ricevano, quale tangibile alternativa a un irraggiungibile fiore mitico, il pane detto Rosa de Gérico, un pane che evidentemente viene conservato come talismano apotropaico, capace di difendere la donna durante i parti. La evidente base etimologica è l’akk. rusû ‘incantesimo, filtro magico’ + gērû ‘oppositore, nemico (il Diavolo, o altri)’ + īku ‘diga di difesa’. In origine il composto rusû-gēr-īku ebbe il significato sintetico di ‘incantesimo che crea una diga di difesa contro il diavolo, contro i nemici’.

Salvatore Dedola,
glottologo-semitista

Nell’immagine: l’incipit “R”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009

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