
Ho scritto questo atto unico sotto l’onda emozionale della immigrazione massiccia da Sud a Nord che caratterizzò la prima metà degli anni ’60. La non accoglienza, il vero razzismo che allora si rivelò in tutta la sua ottusità e crudeltà verso la mia gente che cercava un onesto lavoro attratta dal bene economico di cui erano garanti le fabbriche del nord, mi scosse profondamente. Anch’io sono una immigrata, perché molto piccola fui portata, nel ’46, da una soleggiata benché prostrata Napoli, ad una nebbiosa Milano stretta nel gelo di un inverno così rigido che nessuno se lo ricordava. Forse perché la vita era dura ovunque, ci si doveva rimboccare le maniche ed aiutarsi l’un l’altro per ricostruire e rinascere come Nazione libera, democratica, non ci fu nei miei confronti mai discriminazione. Anzi fui io, invitata a casa di una amichetta, a disquisire sulla pasta che era troppo cotta e, orrore, condita solo col burro (dove era il sugo saporoso e profumato che faceva mia nonna?). Ma nel ’60 non fu così. Forse perché erano in tanti, a frotte, ad arrivare sui treni stracolmi, con improbabili masserizie, perché erano così diversi i loro costumi familiari, il loro cibo, la loro parlata. La paura dell’invasione del proprio territorio da parte di sconosciuti credo che innestò quella triste avversità che si tradusse in riprovevoli ed umilianti gesti.Continua a leggere →