D come DÉU, una parola sarda al mese: Dio

l'incipit D, in Giampaolo Mele, Die ac NocteSignificato di parole sarde secondo antichi dizionari – laboratorio linguistico, storia e cultura sarda a Biella

Tra tanti epiteti riservati all’Altissimo, la Sardegna conserva – intatto come 40.000 anni fa – il nome Déu, Deus. Il quale è veramente universale, o almeno “mediterraneo-euro-asiatico”, ed è ridicolo pensare che qualche popolo lo abbia imposto ad altri con la forza imperiale. Questa parola magica vola alta, liberamente, a dispetto dello stuolo di linguisti che vorrebbero imporre alla Sardegna l’irritante balzello della “eterna colonizzazione”, quindi della “derivazione del pensiero sardo da altri centri più evoluti”. Salvo poi capirsi sul concetto di “centri più evoluti”, visto che quando nacquero i concetti di “Dio”, Atene e Roma, gl’inossidabili idoli dei nostri linguisti, stavano ancora in mente Dei, nella mente di Déus, di Zéus. Quando infine i Sardi costruirono la magnifica serie di nuraghes, si dovette attendere ancora altri 1.000 anni perché Roma nascesse. E Roma utilizzò i nuraghes come magazzini, senza alcun ritegno al pensiero ch’essi erano stati eretti proprio in onore del Dio Unico, il Creatore dell’Universo.
Atene vanta un’antichità maggiore rispetto a Roma. Il loro Ζεῦς (che ha modificato in Z- l’iniziale del nostro Deus) apparve in Grecia come padre degli déi e degli uomini. Ma il suo apparire a capo di un pantheon arretra dall’800 di Roma al 1.200 prima dell’Era volgare (Iliade), allorché il nome di Déus stava circolando nel Mediterraneo da decine di millenni.
Questo epiteto panmediterraneo è pronunciato in Sardegna Déu, in Grecia Zéus, in Roma Deus. È la stessa voce, ed ha un’arcaica base nel sumero de ‘creare’ + u ‘totalità, universo’. Pertanto De-u significò sin dalle origini ‘Creatore dell’Universo’. Che poi il sanscrito deva ‘dio’ abbia la stessa radice sumerica, è ulteriore indizio che fu proprio il bacino sardo-mediterraneo-sumerico a irraggiare il concetto del Principio Universale. Vale la pena aggiungere che dalla base di ‘splendore’, de ‘creatore’ i Sumeri forgiarono un proprio termine per nominare propriamente Dio, ed è dingir, di-ĝir, che significa esattamente ‘Dio dei Sumeri’ (dove di significa ‘Dio’, ĝir significa ‘autoctono, nativo’ ossia ‘Sumero, colui che vive nella terra di Sumer’).
Non è vero che il gr. Zεύς trascriva la z- da una *dy- indoeuropea (Rendich, Dizionario Indoeuropeo); invece la trascrive direttamente dal sumerico d-. Nel quadro dei confronti paralleli fu arrecata confusione dall’intromissione del lemma greco θεός ‘dio’ (leggi: theós), poiché non si è voluto render conto che θεός non è nome proprio ma nome di genere: indica qualunque dio del pantheon greco, dai quali si distingue propriamente Ζεῦς col suo nome personale. Principalmente non si è voluto tener conto che il concetto greco di θεός è precisato dal collaterale verbo θέω ‘brillare, sfolgorare’: quindi θε- è forma distintiva (oppositiva) ch’esprime lo stesso concetto della radice sumerica di ‘sfolgorare’, cui si erano omologate le altre radici “indoeuropee” in dī- (es. lat. di-us), relative alla ‘luce del giorno’, allo ‘splendere, brillare, render chiaro’, che appunto hanno la base nel sumerico di ‘brillare, sfolgorare, to shine, to be bright‘. Quindi il lat. di-us ‘luminoso, divino, del cielo’, di-es ‘giorno’, gr. dī-os ‘brillante, divino, celeste’ hanno la base nel sumerico di ‘to shine, to be bright’ + u ‘universo’, col significato originario di ‘illuminare l’universo’; non sono quindi scomponibili in *d-ī, come pretenderebbero invece gli indoeuropeisti, che lo traducono bolsamente come ‘moto continuo (ī) della luce (d)’ (vedi Rendich), ossia in un modo che sta agli antipodi del pensiero scientifico.

Salvatore Dedola

Nell’immagine: l’incipit D, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009

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