Radici identitarie: un continuum, non un prima e un dopo

La pietà popolare è un tesoro inestimabile – Come si impoverirebbe la storia spirituale della cristianità se non avessimo ancora il Rosario, la Via Crucis, la giusta venerazione delle reliquie, le processioni, i pellegrinaggi ai santuari, le medaglie ed altro – I fedeli, a volte, ritrovano più in essi l’intimità della fede e la sua genuinità che non in riti perfetti dove l’esteriorità vela la grandezza della celebrazione.

pane di carità
Maglione, distribuzione del pane di carità. Il Vescovo di Ivrea, mons. Arrigo Miglio con presbiteri e parroco.

Aver scelto di mettere su carta quanto ho da dirvi è dipeso unicamente dal voler stare rigidamente nei tempi a disposizione e per poter dare più spazio a chi, per esperienza e dottrina, sa snocciolare meglio di me il tema di questo nostro incontro.
Ringrazio dell’invito che mi onora sia per l’argomento che per i relatori che sono qui insieme a me.
Tutto quanto si dirà sarà stimolante ed interessante e mi auguro vivamente che possa produrre quei frutti che rimangono per sempre.
Come è naturale: ci si attende da me un intervento prettamente pastorale per tanti motivi ma, soprattutto , perché questo incontro è inserito nel pieno della festa patronale che ha avuto già stamattina il momento centrale e significativo e si protrarrà fino a tutto domani.
È il primo anno che vivo i vari momenti della ricorrenza. Sono stato invitato quando il programma era stato appena abbozzato, ci siamo visti e sentiti per via informale, ho partecipato all’incontro definitivo.
Mentre scrivo sono ancora in attesa di ciò che sarà fra tre giorni e di come vivrò io questo evento. E’ la festa patronale ed il desiderio di un parroco è sempre quello di vedere tutta la comunità unita nel celebrare la festa di San Maurizio che sa di passato, presente e futuro.
A differenza di altre ricorrenze, nella vita della chiesa ogni cosa non è mai solo un ricordo ma memoria viva che ci aggancia in modo forte, tenace a chi prima di noi ha dato un segnale concreto della propria fede.
Noi viviamo oggi ciò che i nostri padri ci hanno trasmesso e che siamo tenuti a trasmettere arricchito dal nostro apporto.
Ho sempre pensato che non esiste un prima, un durante ed un dopo ma che dall’inizio dei tempi l’uomo è un tutt’uno e le cui azioni sono frazionate in tempi e circostanze ben precise ed irripetibili. L’uomo, inteso concretamente come individuo, pur vivendo l’infanzia, la fanciullezza, la giovinezza, l’età adulta ed il coronamento della sua esistenza, sa e sente di essere sempre la stessa persona. Anche se le cellule delle tappe precedenti sono tutte mutate, l’individuo è arricchito ma non è un altro nel succedersi degli anni.
Cosa hanno voluto significare queste ragazze che hanno sfilato con questi coni fioriti sulla testa e che hanno voluto dire un pari numero di ragazzi con le alabarde in mano a fianco di esse?
Vogliamo chiederlo a loro? Hanno provato essi emozione nell’essere non primi attori della festa ma pagina scritta nei secoli di questa nostra piccolissima comunità di Maglione?
Se questa emozione c’è vorrei condividerla; se non ci fosse qualcuno deve trasmetterla loro.
È così importante l’intrinseco significato di questo evento che tutti i giovani dovrebbero fare a gara per accaparrarsi il posto per l’anno prossimo. Sono convinto che se questa festa penetra nelle ossa, anche le persone dei paesi vicini e lontani torneranno a casa con un messaggio non fatto solo di appagamento degli occhi.
Anche se la storia delle matarille è un po’ scarna riguardo alle origini, noi vogliamo coglierla per il motivo per cui è stata inserita in una festa liturgica.
Interessantissimo far emergere in ogni tradizione l’aspetto antropologico: l’aggancio remoto a tradizioni e simbolismi pagani, eventi precisi che hanno originato una reazione socio-politica e di conseguenza il perpetuare come meglio s’è creduto quella parte di storia non sempre scritta ma semplicemente tramandata; l’orgoglio di una parte della comunità che rivendica nel ricordo la più alta aspirazione alla libertà o la riconoscenza verso chi si è sacrificato per darci un mondo migliore.
Sotto questo aspetto cedo il testimone a chi è più ferrato e sa emozionarci perché ha “votato” parte della propria vita per leggere e leggerci ciò che è nascosto anche in un semplice graffito o qualche sparuto segno su una pergamena.
Io, come dicevo all’inizio, vi invito a riflettere sul significato religioso che i secoli hanno dato a questa festa.
Premetto che sono pienamente convinto che la pietà popolare è un tesoro inestimabile della Chiesa. Immaginate come si impoverirebbe la storia spirituale della cristianità se non avessimo ancora il Rosario, la Via Crucis, la giusta venerazione delle reliquie, le processioni, i pellegrinaggi ai santuari, le medaglie ed altro. I fedeli, a volte, ritrovano più in essi l’intimità della fede e la sua genuinità che non in riti perfetti dove l’esteriorità vela la grandezza della celebrazione.
Bisogna però, tener ben fermo che la celebrazione liturgica rimane “la fonte ed il culmine della vita della Chiesa (Come recita il Concilio Vaticano II).
“La religiosità popolare, espressa in forme e modi diversi, quando è veramente genuina, ha come sorgente la fede e, per questo, deve essere apprezzata e favorita”. (Cardinale Jorge A. Medina Estévez).
Proprio perché è espressione viva del sentire religioso dei fedeli è dovere dei pastori vigilare perché tale religiosità non si allontani o non entri in conflitto con quanto raccomandato dal magistero.
Come potremmo dire atteggiamento cristianamente corretto se dei fedeli, assidui viatori verso santuari e ed anche la Terra Santa, credono superfluo partecipare all’Eucarestia festiva e alle più importanti e significative celebrazioni liturgiche, in modo particolare il triduo sacro della Pasqua?
Rimane sempre vero ciò che Gesù disse in sogno a Francesco: “Chi può esserti più utile? Il padrone o il servo?”… “Perché dunque abbandoni il padrone per seguire il servo e il principe per il suddito?”. Anche se questa citazione si riferisce ad un contesto ben preciso di Francesco, rimane valido il concetto che, se ogni devozione non porta alla corretta sequela di Gesù, va seriamente rivista.
Quello che emerge dalla nostra festa patronale è l’omaggio floreale di una comunità con tutto ciò che sottende.
Certamente il regalo più bello che un essere intelligente può fare ad un altro è quello di trasmettere la gioia di vivere ed un sorriso che contagia. Sappiamo bene, però, che non sempre la vita ci sorride ed allora gli elementi della natura suppliscono con una certa efficacia quel qualcosa di inesprimibile verso un altro. I fiori sono l’espressione più tangibile e non venale dell’offerta del meglio di noi.
Anche il nostro rapporto con Dio è così: fatto di parole, di gesti, di doni. Lo stesso Gesù, per prendere l’esempio del più bello fra i figli dell’uomo, s’è servito della storia dei suoi simili e del mondo che lo circondava per darci l’idea di Dio e del suo Regno il più rispondente possibile alla realtà.
Certamente bisogna distinguere tra i vari simbolismi che la Chiesa ci ha tramandato nei secoli:
Ci sono simboli che richiamano un messaggio più profondo di quello sensibile quali sono la flora-fauna che possiamo notare in tante basiliche, cripte, sarcofagi ecc.
Ci sono poi simboli, che non sono come l’etimologia potrebbe suggerirci, e mi riferisco ai segni sacramentali che sono segni efficaci di Grazia. Il pane ed il vino consacrati sono non il simbolo del corpo e sangue di Cristo ma veramente suo corpo e suo sangue.
Le matarille vogliono richiamarci, nell’intenzione degli avi, la riconoscenza ed il ringraziamento per i frutti della nostra madre terra che “sustenta et guberna” da sempre l’uomo ed ogni essere vivente.
Con questo piccolo accenno mi piacerebbe pensare che tutti in questa festa sentano piena riconoscenza e ringraziamento a Dio Creatore e Provvidenza anche se c’è il costante e sudato contributo della propria fatica quotidiana.
Il ritorno ai campi con la benedizione di Dio deve darci lo slancio a porre la nostra opera, con umiltà, per vedere nella natura che segue l’indirizzo della nostra valentìa agricola, l’opera creatrice di Dio, il suo ordine, la sua bellezza e il suo amore fecondo.
Stando alla festa come organizzazione mi è venuta qualche riflessione e, se volete, qualche proposta.
Sentendo qualche anziano mi è sembrato di cogliere che, in anni lontani, le ragazze preposte come matarille e gli alabardieri vivessero nei tre giorni precedenti un momento di meditazione comune ed anche di preghiera. Potremmo farci un pensierino?
Ancora: Non sarebbe bello se ogni anno un gruppo s’impegnasse a creare una nuova matarilla floreale perché sia segno visibile che quel passato di cui facciamo memoria è diventato davvero nostro e non solo ricordo?
Nella nostra ricorrenza annuale, se c’è attesa di qualcosa di nuovo, emozione, partecipazione, davvero san Maurizio è colui che tira le fila per coagulare ogni aspetto di questo evento nel suo più giusto significato in suo onore ed innanzitutto per la gloria di Dio.
Nel finire esprimo stima ed ammirazione agli organizzatori; rivolgo il mio grazie agli oratori che ci arricchiscono con la loro sensibilità per tutto ciò che è espressione elegante dell’uomo e di quel sacro che lungo i secoli ne ha segnato i ritmi del vivere sociale; e… grazie a tutti voi per come vi siete posti nel vivere la celebrazione del martire san Maurizio in questo 2010.

Don Angelo Rapuano,
parroco di Maglione

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