Lingua materna in poesia e il segreto delle piccole cose

Martedì, 30 giugno, ore 21:00 videoconferenza – collegamento transoceanico: Su Nuraghe di Biella incontra “Antonio Segni” di La Plata (Argentina) – “Sa limba/La lingua”, poesia di Nicola Loi di Ortueri (Nuoro) è la nuova composizione frutto della collaborazione di poeti contemporanei per il laboratorio linguistico “Eya, emmo, sì: là dove il sì suona, s’emmo e s’eya cantant” organizzato dal Circolo Culturale Sardo di Biella per imparare a leggere e scrivere in lingua materna.

Galactites tomentosaÈ un mistero irrisolto quello che fa sì che una serie di suoni dia significato all’oggetto – cosa, animale, persona – che indica. Come fa la parola poesia (vale a dire, p-o-e-s-i-a), nella nostra lingua, ad indicare quello che tutti, pur nella differenza delle definizioni, comprendiamo? E’ il suono dei singoli fonemi? E’ il suono della parola intera? Questo vale per qualsiasi parola in qualsiasi lingua. E resta un mistero!
Accontentiamoci del fatto che una serie di suoni abbia una relazione precisa con l’oggetto che indica e che la totalità delle parole corrisponda alla totalità degli oggetti indicati da una lingua: tutte le parole, di tutte le lingue, messe insieme, indicano tutti gli oggetti che esistono nel mondo intero.
Da ciò consegue che una cosa che non ha nome, semplicemente non esiste: almeno fino a quando non gliene viene dato uno. E’ il famoso esempio dell’America che, pur essendo da sempre stata dove è, non è esistita, nella conoscenza delle persone, fino a quando non le abbiamo dato il nome con cui la conosciamo.
La storia del linguaggio umano è anche al storia di tutte le parole inventate dall’uomo per definire gli oggetti che fanno parte della sua realtà. La lingua dell’umanità – il complesso di tutte le lingue della storia dell’umanità, comprese le lingue ormai scomparse o morte – conserva la memoria di tutte le cose che ciascuna parola – in ciascuna lingua – indica e a cui dà vita.
Una lingua – soprattutto e ancor più nella sua espressione poetica – accoglie non solo concetti razionali e logici, che servono per la comunicazione; accoglie dimensioni di bellezza, in cui il suono non è solo quello legato al significato immediato delle singole parole; qui, il suono apre orizzonti e spazi del cuore, dell’anima: ben oltre il banale rapporto parola-cosa dove il significato è, giustamente, utile, fissato dall’uso. Nella poesia, il senso della parola si dilata, supera quello della concretezza: diventa emozione, sentimento, etica.
Dice, Nicola Loi, che la lingua “è benedetta”, ma, nel contempo, anche “maledetta….velenosa”.
L’uso che se ne fa è lasciato – purtroppo! – alla qualità umana e morale delle persone. Però è vero che, se la lingua fa male, ferisce, uccide, è anche vero, come ben dice il nostro Poeta, che la lingua conferisce “nobiltà…agli umani…”; che “è medicina….è l’ago della bilancia”. E siccome, conclude Loi, tutto dipende da chi parla, “se…non sai parlare, allora taci”.
Certo la lingua è un’arma, ma è anche un dono, un tesoro da custodire. Capita, più spesso di quanto non ci si aspetterebbe, che, in questo tesoro, che è la chiave di lettura della nostra qualità umana, si formino dei nuclei di significati. Questi nuclei – impossibili da rendere in un altro linguaggio – sono gioielli che vanno conservati con religiosa attenzione, con cura infinita, con l’amore e con il rispetto devoto che le cose sacre meritano: sono oggetti destinati alla memoria delle generazioni future; oggetti che hanno attraversato il tempo, vivendo nella memoria, anche quotidiana, di chi li sa e li conosce: trasmissione familiare, consuetudine di vita. Vanno individuati e memorizzati. Non sono solo un sapere – un sapore – che scivola dal passato fino a noi: sono il nostro cuore, il nostro essere passati intatti nel tempo.
Piccole cose a petto della vastità dell’infinito sapere del mondo; piccole cose, certo. Aperte, però, sull’enorme, sconfinata quantità del sapere, del conoscere, del pensare, che è la mente razionale del mondo e della sua storia; una realtà che, a tutta prima, parrebbe piccola, insignificante: indegna, si direbbe, di sedere al tavolo del grande sapere, così grande che tutto sa. A ben guardare, però, questa piccola realtà segreta, il grande sapere parrebbe essersela dimenticata. Invece, queste parole nascoste, questi diamanti misteriosi, aprono il cuore, portano la grande mente ad esaminarsi; a scoprirsi rinchiusa, imprigionata in assurde costruzioni disumane e inaridite che, all’uomo, offrono le briciole di un banchetto che mai c’è stato; che lasciano l’uomo solo e perduto in un sapere vuoto e crudele che tutto sacrifica a se stesso.
Ben tornino, allora, questi semplici modi di dire, che, loro sì, invitano alla tavola della vita, donando la ricchezza di ciò che è restato limpido, intatto, nuovo nell’altrimenti vacuo oceano del sapere del mondo. E’ il tornare a capire che quello che sembra piccolo è il cuore della realtà, il tesoro che abbiamo da sempre con noi, dentro di noi: il gioiello segreto che illumina il buio del nostro cammino di viandanti in un mondo spesso incomprensibile e che pare riservare solo dolore e malvagità. E’ questo il piccolo sapere cui si deve tornare; a quel piccolo sapere che neppure si cura di essere ciò che davvero è: il cardine di tutto l’essere.

Pietro R. Borenu


Sa limba

Si l’impitas a bantu est beneita,
A sa persone dat vera lugura.
Si no est un’ispada malaita,
Est peus de una mala disaura.

Cando est impostora, velenosa,
Chi a sa rosa li ponet ispinas.
A sa trabagliadora, isperantzosa,
Sas faulas las ponent in ruinas.

Est totu culpa de custos matzones,
Chi a totucantos ponent avolotu.
Sena difesa poberos anzones,
Ch’in disonore ponent in su totu.

Pero si bantas una rosa rara,
Sa limba bogat bona poesia.
E versos bonos li cantas in cara,
Li naras donos et sa galanìa.

O una mastra cun sas manos d’oro,
Chi pintat o chi cosit o iscriet.
Tando faeddos bessint dae coro,
E sa limba de bonu no s’afiet.

Però a s’imbesse sa mala idea,
Sa limba pagat a soddu contante.
Leget sa vida e ponet pelèa,
Umiliare podet s’ignorante.

Sa limba dae semper est iscola,
Chi nobilesa dat a sos umanos.
E no est pro niunu noitola,
In bibbias, vangelos e coranos.

Sa limba est meighina a ora giusta,
Semper in mesu de pagh’e de gherra.
Est de mele o de samben’infusta,
Est s’agu de sa pesa in custa terra.

Ma si tue no ischis faeddare,
Tando ti caglias e pius iscurtas,
Tando cagliadu podes iscurtare,
E iscurtende in totu resurtas.

Nigolau Loi, su 27 de maju de su 2020

La lingua

Se l’adoperi per elogio è benedetta,
Alla persona dà vera luce.
Altrimenti è una spada maledetta,
È peggio di una cattiva disgrazia.

Quando è calunniosa, velenosa,
Che alla rosa mette spine.
Alla lavoratrice, speranzosa,
Le bugie la mettono in rovina.

È tutta colpa di quei volponi,
Che tutti quanti sconvolge.
Senza difesa poveri agnelli,
Che in disonore mettono del tutto.

Però se elogi una rosa rara,
La lingua fa uscire buona poesia.
E versi buoni canti in viso,
a lui dici doni e la (loro) bellezza.

Una mastra con le mani d’oro,
Che dipinge o che cuce o scrive.
Allora parole escono dal cuore,
E la lingua del buono non graffia.

Invece se al contrario la cattiva idea,
La lingua paga a denaro contante.
Legge la vita e mette in pena,
Umiliare può l’ignorante.

La lingua da sempre è scuola,
Che nobiltà dà agli umani.
E non è per nessuno nuova,
In bibbie, vangeli e corani.

La lingua è medicina all’ora giusta,
Sempre in mezzo a pace e a guerra,
È di miele o di sangue bagnata,
È l’ago della bilancia in questa terra.

Ma se tu non sai parlare,
Allora taci e più ascolti.
Allora zitto puoi ascoltare,
E ascoltando tutto intendi.

Nicola Loi, 27 maggio 2020


Nell’immagine: Nome scientifico: Galactites tomentosa. Nome italiano: Scarlina. Nome sardo: Aldu anzoninu/angioninu/anoninu; Cardu de pastori; Aldu biancu.

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