Il “mercato delle braccia” di Santhià nel 1907 nel civile Piemonte

Dea, Giuliano, Giuseppe e Ugo Anice, con Enos Pozzo

Domenica primo agosto alle 16,30, in frazione Gurgo di Pettinengo, di fronte al Museo delle Migrazioni – Cammini e Storie di Popoli, di via Fiume 12, nell’ambito della manifestazione Estate a Pettinengo, Riccardo Pozzo racconterà il libro di Giuseppe Anice “Ero di Nessuno”, una storia biellese tra Otto e Novecento. Seguirà “su cumbidu”, rinfresco – Dalle 14.30 alle 17.30 visite guidate gratuite al Museo delle Migrazioni.

La commovente autobiografia del trovatello Giuseppe Anice, esposto all’Ospizio di Biella il 2 giugno 1894 narra la trasformazione di un umile “vaccaretto” ad abile fornaio a Donato, poi emigrante e operaio in Francia, con i figli e l’adorata moglie Mariulìn, per tornare infine “scrittore” a Biella con l’obbiettivo di lasciare una testimonianza di vita ai suoi discendenti. Finalista al Premio Pieve nel 2014, il testo è stato pubblicato nel 2019 per i tipi di Effigi (Arcidosso – GR), grazie alla tenacia dell’antropologo Pietro Clemente, che ne firma la prefazione, la cura del linguista Mariano Fresta e l’impegno di Davide Porporato dell’Università del Piemonte Orientale, che ha scritto il saggio introduttivo. Concludono il libro i “ricordi di un nipote e di un pronipote” ossia del compianto decano dei giornalisti biellesi Mario Pozzo e di suo figlio Riccardo.

Il trovatello – racconta Riccardo Pozzo nel parlare del bisnonno – sembra davvero incarnare lo stereotipo ottocentesco del bambino sfruttato, ripudiato, ma allo stesso tempo furbo e dinamico, tipico di tanta letteratura popolare dell’Ottocento, dall’Oliver Twist di Charles Dickens al Tom Sawyer di Mark Twain, passando per il Remì del romanzo “senza famiglia” di Hector Malot, celebre anche per la fortunata riduzione a disegni animati giapponese andata in onda sulla Rai nei primi anni Ottanta del secolo scorso”.

Una tra le tante cose che sconcertano il lettore contemporaneo di “Ero di nessuno” è apprendere che nel civile Piemonte di inizio Novecento esistesse ancora il “mercato delle braccia”, ossia un luogo in cui i bambini prelevati dall’orfanatrofio, come Giuseppe, venivano nuovamente esposti, denudati e messi all’asta “per un periodo di sei mesi” al migliore offerente. Ecco uno tra i brani più significativi e commoventi del libro di Anice:

«Quella mattina mi alzai alle quattro, feci i soliti lavori, feci un pacchettino dei miei miseri e cenciosi indumenti (che poi perdetti per strada), fui accompagnato fino a Santhià dove quel giorno vi era il mercato dei vaccaretti. Ricordo che il giorno prima era caduta abbondante la neve, ma il mattino era sereno e faceva un freddo terribile. Alle cinque partimmo, io col mio miglior vestito, il pacco infilato su un bastone in spalla, con gli zoccoli nei piedi, senza calze; e via appresso a quell’uomo che aveva l’incarico di ingaggiarmi per sei mesi al prezzo da convenirsi rispetto alla capacità di lavoro che mi avrebbero stimato.

Arrivammo alle otto. Mi mise in quella piazza ben esposto a fianco di diversi altri, aspettando che gli amatori venissero a scegliere a loro convenienza e gusto. Il mio accompagnatore mi aveva messo al prezzo di quaranta lire per la durata di sei mesi, più dieci lire per il suo disturbo. Passavano i padroni compratori e per uno ero troppo caro, per l’altro troppo piccolo, o troppo debole, e via così. Noi sempre là. Io ero intirizzito dal freddo e dalla fame e col cuore gonfio anche perché avevo perso per strada quei pochi stracci. Per il freddo e gli sdruccioloni nella neve non me n’ero accorto. Dopo due ore di contrattazioni, si giunse a un accordo a trentacinque lire per sei mesi di ingaggio. Ero mantenuto, con alloggio e nient’altro. Il vestirmi era a mio carico. Concluso il contratto, il mio nuovo padrone mi pagò un caffè e due brioche, così potei scaldarmi e diminuire la fame. (…) giunti a casa del mio nuovo padrone mi svanì subito il buon concetto che mi ero fatto. Mi fece conoscere la padrona e i suoi figli; era a loro che dovevo ubbidire, e fare i lavori che mi comandavano. Mi fecero vedere la stalla con sedici tra mucche, vitelli e buoi. Io dovevo tenere la pulizia e fare tutto il necessario. Poi mi fecero vedere dove dovevo dormire: in un cassone sempre lì nella stalla, pieno di fieno, pronto a dare da mangiare alle bestie. Io ero obbligato a dormire lì per far compagnia alle mie “allieve”. Avevo dodici anni e mezzo, sapevo che non ero colpevole di niente, che avrei desiderato tanto anch’io avere la mia Mamma e conoscere le gioie di cui tanto sentivo il bisogno. Eppure queste grazie a me non furono concesse. (…) Attendevo il suono della campana per mettermi a tavola, avevo una fame da lupo, sentivo il buon odore della polenta. Invece un figlio del padrone mi ordinò di pompare acqua e riempire un tinello che era nella stalla perché l’acqua si intiepidisse per poi abbeverare le bestie alla sera. Finito quello, andai alla porta della cucina. Mi diedero un piatto in mano, vi era polenta e salame di sangue (bodino), abbastanza buono per la fame che avevo, dicendomi di andare a mangiare nella stalla con le bestie, perché là era caldo. E tutti i giorni era così, io non dovevo mai mangiare con i padroni».

Michele Careddu

Nell’immagine, da sinistra: Dea, Giuliano, Giuseppe e Ugo Anice, con Enos Pozzo, a metà anni Settanta. (foto William Anice)

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