La preghiera in sardo è parola del tempo e nel tempo

Ospiti dei Frati Francescani Minori, venerdì 21 gennaio, alle ore 20.30, nella Basilica di san Sebastiano di Biella, verrà intonato Su Rosariu cantadu in memoria di Luigi Lizza, Clara Taberlet, Franco Deias e dei conterranei recentemente scomparsi: Picciau, Cabras, Pisanu e, ancora pochi giorni fa, Antonio Sais. La preghiera di suffragio sarà guidata dal Cappellano di Su Nuraghe don Ferdinando Gallu che terrà la catechesi in Limba.

Basilica di san Sebastiano di Biella
Basilica di san Sebastiano di Biella.

La basilica di san Sebastiano, Tempio civico della Città, testimone di 500 anni di storia non solo locale, è stato eletto quale luogo della memoria dalla comunità sarda di Biella, custode – tra gli altri – delle spoglie mortali di Alberto Ferrero della Marmora, senatore del Regno di Sardegna, studioso ed amante dell’Isola e dei suoi abitanti.
Da diversi lustri, la chiesa è divenuto luogo di incontro per celebrare la gioia e la festa dei Sardo-Biellesi; oggi gli antichi battenti si aprono per accogliere il compianto e innalzare coralmente al cielo preghiere nell’antica lingua materna.
Pregare in sardo significa – sostiene Bachisio Bandinu in Lingua sarda e liturgia, Selargius, 2008 – percorrere un altro sentiero, vuol dire abitare un’altra dimora spirituale: è la singolare identità della preghiera in ciascuna lingua.
La parola di Cristo si fa preghiera in un altro idioma.
Elementi acustici, tattili, visivi, immaginativi, intervengono diversamente nell’atto di preghiera. C’è una relazione profonda tra suono e senso. Una diversa materialità espressiva e un diverso rimando simbolico.
La storia umana e religiosa dei sardi, attraverso i secoli, è stata parlata anche in lingua sarda, per la gran parte della popolazione solo in sardo, nella segretezza della parola e nella socialità del discorso. Lingua della solitudine della preghiera e della coralità pubblica, della sofferenza e della speranza. Parole di superficie e di profondità: forti come radici e caduche come foglie di stagione. Capaci di penitenza, di promessa e di ringraziamento. Capaci di verità. Parole contratte e ingorgate da lacrime e parole di alleluia e di ringraziamento.
S’Ave Maria e su Babbu nostru – continua Bandinu – non indicano un ritorno a un prima: è preghiera in atto. È annunciazione sempre nuova. Non è un torrare a su connotu, a un conosciuto delle madri, come recupero suggestivo e struggente, è apertura dell’attualità, del farsi del tempo. È preghiera che inventa la storia di una comunicazione inedita. È tempo di Dio nell’atto di parola. Non è un ricordo, è opera sempre attuale della memoria. Il ricordo è l’arcaico, tutto ciò che come fantasma si cristallizza in un periodo trascorso quasi fosse rimasto intatto: fissazione, illusione, falsificazione. La memoria opera nel procedere del tempo. “Fate questo in memoria di me” non significa ricordare un evento inesorabilmente trascorso, indica invece l’esperienza del presente: sacrificio, ciascuna volta nuovo, originale.
La preghiera in sardo è parola del tempo e nel tempo, appartiene all’immaginario religioso delle genti sarde, continuamente rivissuto e investito nella pratica di fede del proprio tempo. Grazie al rito la comunità si ritrova come popolo credente e sfugge al rischio di diventare “pubblico” o peggio di essere “massa”.
Il rosario in lingua sarda non è una recita arcaica, datata, perché il tempo dell’atto di fede non è cronologico, ciascuna volta trova il suo rinnovamento.
La memoria procede dal futuro perché ci interroga sulle modalità di proseguire il cammino di fede, nel segno della speranza con investimento spirituale della parola e del rito. La tradizione come narrazione al presente prospetta un tempo a venire.

Giovanni Usai

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