Mannigos de Memoria: il grano fantasticheria, cibo per sa Limba sarda

Mannigos de memoria, corso di Filet, tramandare gesti e parole
Mannigos de memoria, corso di Filet, tramandare gesti e parole.

«Là dove si lascia che il colloquio si spenga, la cultura stessa ha cessato di esistere». Così il filosofo torinese Norberto Bobbio descriveva, nell’opera Invito al colloquio, l’approccio che, secondo lui, avrebbe dovuto animare le relazioni intercorrenti fra i moderni intellettuali al fine di raggiungere i migliori risultati possibili nei rispettivi percorsi di ricerca e di studio, oltre che di esistenza individuale. Un’ottica che vede nella condivisione e nel confronto, oltre che uno stile di condotta, la base di un vero e proprio metodo, il quale dovrebbe ulteriormente conformarsi ad un secondo asserto, segnalato dallo stesso pensatore nella medesima opera: «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dubbi, non già di raccogliere certezze». Tali massime di scienza possono essere uno spunto per affrontare una riflessione e rilanciare il dibattito che qualche mese ha riguardato i cosiddetti «Mannigos de memoria», il noto progetto della FASI volto all’archiviazione di interviste in Limba al fine di promuovere, studiare e conservare la Lingua Sarda nel mondo dell’emigrazione, nonché le testimonianze di storie di vita dei numerosi sardi che hanno lasciato nel corso degli anni l’Isola natia per piantare nuove radici in terre più o meno lontane.
Un intento assai onorevole, anche alla luce di quanto affermato recentemente dal linguista Ezio Raimondi, il quale ha indicato come a proposito della parola ci si trovi di fronte ad un complesso fenomeno ricco di memoria, ossia: «…un sistema conoscitivo per superare la frammentazione dell’individuo…»1. E ciò perché una lingua non è soltanto un fenomeno storico, ossia l’insieme delle cose che sono state scritte e dette nel corso di secoli, ma anche un’idea, una possibilità, una forma, che sta nascosta, talora per tempi lunghissimi, nelle profondità della lingua reale2.

In occasione dei commenti all’incontro di Padova del mese di gennaio 2010 qualche studioso aveva giustamente fatto notare come l’espressione dalla quale il citato programma culturale aveva preso il suo titolo avesse avuto origine dal celebre omonimo romanzo in Limba di Antoni Cossu, pubblicato nel 1984 per iniziativa dell’ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico) di Nuoro, ed avente a sottotitolo «Paristoria de una rivoluzione». Nel mese di ottobre di quello stesso 1984 apparve un articolo a firma di Giovanni Mameli sul Messaggero Sardo, nel quale si precisò, riprendendo quanto riferito dallo stesso autore del libro, come il titolo non fosse altro che un modo di dire di Santu Lussurgiu e di altri paesi sardi e significasse, sebbene letteralmente “cibi del pensiero“, precisamente “fantasticherie“. Un concetto che potrebbe trovare la sua ulteriore giustificazione letteraria nella trama quasi utopica del romanzo, ove sardi emigrati fanno ritorno sull’Isola per prendere il potere esautorando chi partito non era. La metafora, in fin dei conti, è una figura retorica nella quale, individuando un’immagine, si usa una parola in luogo di un’altra che ha con questa un rapporto di somiglianza o di analogia, aspetto tipico della lingua sarda, come viene sottolineato nella nota ad accompagnamento della recente breve opera di Salvatore Niffoi, Paraìnas – Detti e parole di Barbagia3. In questa sede, tuttavia, si precisa come l’attenzione di chi scrive sia volta al significato “potenziale” dell’espressione “mannigos de memoria” in stretta connessione alle finalità istituzionali dell’omonimo progetto culturale rivolto agli emigrati sardi.

In un mio commento precedente avevo riportato una digressione etimologica sull’espressione “mannigos“. In particolare avrei dovuto proporre l’analisi in termini più ipotetici, quando avevo fatto notare come la dizione “Mannigos” potesse derivare: «…da “mannigiu, manniju, mannigu“, ossia il mannello, termine derivante, a sua volta, da mano con riferimento specifico a quelle colme di spighe di grano o, meglio, le spighe che stanno in una mano per formare il covone (in sardo indicato prevalentemente con l’espressione “sa manna“)…». Nel fare ciò avevo chiamato in causa Max Leopold Wagner, il quale, nel suo Dizionario Etimologico Sardo – DES4, a tale proposito, indica un lemma ad hoc, sa Mánika [nuor.; mániga camp. (Villacidro, S.Antioco: máinga; Mògoro: mágia: AIS 1454); log. mániga (Spano), non localizzato, “bica, mucchio di covoni“, = MANĬCA nel senso di “una manata“. La mániga consiste di cinque mannúgos (→ mánna); cfr. LLS 28]. Scusandomi, quindi, di questa mancanza nella forma nei confronti del lettore più attento, colgo l’occasione per integrare le fonti di ricerca e segnalare che nel Vocabolario Sardo-Italiano e Italiano-Sardo di Giovanni Spanu5 esistono i seguenti ulteriori lemmi a riguardo: « Manna: f. Dial.. Com. mannna, specie di gomma. Log. covone, manna. Fagher a mannas, accovonare, ammannare. Mannighedda, covoncello. Mannuju: m. Log., mannugu Mer. manàta, manipolo, manella »; in una diversa edizione6 lo stesso autore indica come il termine italiano covone possa essere così tradotto: «m. Log. Sett. Manna de trigu. Mer. maniga de trigu, orgiu. Gall. mannèddu». Pietro Casu, nel Vocabolario Sardo Logudorese-Italiano7 evidenzia come il termine màniga venga ad indicare, tra i suoi vari significati, anche quello di “covone“, riprendendo la relativa voce del Wagner, e che anche la stessa parola mannùju individua in diversi luoghi dell’Isola il concetto di covone. A tale proposito pare tornare ad essere risolutore ancora lo stesso autore tedesco Wagner il quale, nella sua opera La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua8, riporta alcune ulteriori annotazioni utili in merito allo studio del lessico sardo relativamente alle attività della mietitura e della raccolta del grano. In particolare egli evidenzia come quanto possa essere afferrato con una mano venga definito manáđa; due o tre manáđas vengono a formare un mezzo covone, di per sé definito: «…mannúgu (nuor. manúkru, log. man(n)úgru, mannúyiu, camp. man(n)úgu = manuculu (le forme di – nn – per influsso di mánna …). Accovonare è log., camp. ammanugare, -ai. Cinque mannúgos formano una mániga (nuor. manika, log. mániga o mágina, camp. mániga) = manica (bracciata, fascio); in log. mánna (in gall. mannéddu)(…) Le mánigas sono legate subito (…) Il termine tecnico per legare i fasci di covoni è log. prèndere mánigas = prehendere, camp. li(g)ai manigas = ligare…». Nei testi che ho evidenziato, quindi, sembra individuarsi nello studio etimologico delle relative dizioni un riferimento costante e ripetuto al mondo agricolo del “grano” e dei covoni per ciò che concerne le radici delle parole considerate, compresa la stessa parola “mannigos“, per nostro sommesso parere ritenibile eventuale relativa distorsione o variante terminologica. In questa ottica, così, si potrebbe parlare dei prospettati “Granai (o covoni) di Memoria” ed al più, volendo evitare dubbi ed incomprensioni di sorta, si potrebbe parlare di «MannugusMannuyus (o Mannujus) de Memoria», senza pretendere che la scelta sia necessariamente “vera” o, per meglio dire, unanimemente accetta o condivisa. Ciò anche perché la Lingua Sarda si rivela essere una sorta di sfinge, frutto di un’evoluzione cui hanno contribuito molteplici fattori causa di varianti e mutazioni fonetiche, morfologiche e sintattiche non sempre facilmente identificabili nella loro origine ed evoluzione9, e lo stesso concetto di verità non appare facilmente definibile né oggetto di semplice appropriazione, come anche evidenziano i più recenti ed eminenti dibattiti filosofici in materia dei nostri tempi10. Inoltre, in altre circostanze, riferite per lo più ad argomentazioni inerenti il rapporto tra identità e cibo, si è ricordato come da sempre il grano sia fulcro della storia identitaria sarda. La Sardegna, infatti, è stata uno degli antichi granai dell’Impero Romano ed il grano è elemento dal significato spirituale per la sua insita essenzialità nutritizia, oggetto nel tempo di una sorta di “liturgia”all’interno della civiltà ellenica prima, di quella ebraica poi e, da ultimo, della stessa religione Cristiana, come testimonia la scelta “sacralizzante” e sacramentale inerente il pane, dal quale deriverebbe un probabile motivo riflesso anche in comportamenti ravvisabili nelle cucine e nei laboratori di panificazione sull’Isola, quali il saluto bene-augurale «Dio vi guardi» all’ingresso, il segno della croce sulla pasta ed i limiti nell’uso del coltello nel corso delle fasi preparatorie11.

In effetti l’idea di salvaguardare la lingua attraverso chi non abita più in Sardegna da anni può sembrare un concetto quasi utopico o forzato, una “fantasticheria” nei confronti di chi abita nella culla dell’idioma, una prospettiva tale da richiamare la tentazione della suggestione offerta dalla parola “granai” di letteraria notorietà. Tuttavia già il filosofo Guglielmo d’Occam, circa sette secoli or sono, rammentava come non ci si possa occupare delle cose solo mediante le parole od altri generi di segni, rammentando a tale proposito come il concetto o pensiero sia un signum primarium cui sono funzionali i signa secondaria, ossia le parole stesse12. Un filone di pensiero ripreso ed approfondito accuratamente dai filosofi del linguaggio a partire dal ‘90013, specialmente laddove i pensatori del nostro tempo evidenziano come il senso sia un problema epistemologico, di conoscenza, cui soccorre, per i fenomenologi, nel caso del significato letterale14, la categoria della cosiddetta “mostrazione”, in virtù della quale si afferma che: «…le parole non bastano a se stesse nel momento in cui si afferma di attestare un senso…». Come faceva notare John L. Austin, a stessi “segni” possono corrispondere significati diversi, in quanto un medesimo termine può racchiudere in sé una sfumatura di significati ed aspetti non in grado di identificare con precisione il concetto cui ci si riferisce, circostanza che evidenzia come i vocaboli sono spesso incapaci di esprimere compiutamente, ed in modo semplice ed univoco, le realtà ad essi sottesi. Per questo, come si ricordava sinteticamente tempo fa in occasione del saggio di fine anno del Circolo Su Nuraghe di Biella per il corso per fanciulli “Eya, emmo, sì, là dove il sì suona, s’emmo e s’eya cantant“, nel mese di maggio 200915, al fine: «… di ritrovare il significato originale delle cose l’uomo è stato spesso costretto a ritornare alla natura, alla realtà empirica, a strumenti riconducibili a fenomeni concreti, che rendano accessibili ed identificabili il più compiutamente possibile significati, concetti e valori. Per raggiungere tale obiettivo l’uomo ricorre ai segni, i quali, con il proprio carattere di materiale percepibilità, riconducono in modo semplificato ai significati originali delle cose ed hanno il pregio di sintetizzare in una espressione sensibile un significato sotteso. I segni, sebbene convenzione arbitraria, non sono altro, quindi, che un mezzo percepibile di interpretazione delle parole, volti a rendere accessibili ad un maggiore pubblico possibile i concetti sottesi»16.

Tuttavia è vero che nel quadro d’insieme dei nostri giorni, “mondo liquido” in perdita facendo omaggio terminologico al pensatore Zygmunt Bauman, tutte le lingue vive stanno entrando in crisi e stanno diventando “a rischio” di sopravvivenza, proprio come l’idioma sardo. La stessa lingua italiana è diventata “soggetto” in pericolo di depauperamento ed estinzione, come testimoniano diversi studi degli ultimi mesi sulle nuove generazioni, poco avvezze all’ascolto ed alla lettura17. La citazione di una riflessione proveniente dalle terre subalpine può essere un incentivo alla riflessione, all’impegno o, almeno si spera, alla nascita di domande per il lettore: « … per citare l’antropologo Piercarlo Grimaldi… abbiamo bisogno di continuare a creare “granai di umanità ai quali l’uomo del presente può attingere proficuamente quando l’inverno della cultura si fa più rigido e disumano”. È tempo di unirci al coro…»18. Occorre, quindi, non perdere l’occasione delle “fantasticherie”, della raccolta del grano, il cibo per la “speranza del domani”.

Gianni Cilloco

  1. Cfr., S.Andrini, Ragazzi senza parole, in Avvenire, 17 marzo 2010, p. 28 []
  2. Cfr., P.Citati, L’italiano. Istruzioni per salvare una lingua viva, in La Repubblica, 26 febbraio 2010 p. 57 []
  3. Cfr., M.Codignola, “Aiutami“, nell’edizione Adelphi, Milano, 2009, pp. 80-81 []
  4. Cfr., l’edizione Ilisso, Nuoro, 2008, a cura di G.Paulis []
  5. Cfr., l’edizione Arnaldo Forni, Ristampa Anastatica, Sala Bolognese – BO – 1987 []
  6. Cfr., G.Spanu, Vocabolario Italiano-Sardo, Ilisso, Nuoro, 1998 []
  7. Cfr., l’edizione, a cura di G.Paulis, ISRE-Ilisso, Nuoro, 2002 []
  8. Cfr., l’edizione Ilisso, Nuoro, 1996, pp. 112-113 []
  9. Cfr., W.Bellodi, Problemi di linguistica sarda, IRIS, Oliena, 2009, pp. 79-81 []
  10. Cfr., E.Severino, Discussioni intorno al senso della verità, ETS, Pisa, 2009 []
  11. Cfr., gli articoli ed i riferimenti bibliografici circa l’ultima manifestazione tenutasi a Pray Biellese “Sapori di Primavera“, occasione di gemellaggio tra specialità gastronomiche Piemontesi e Sarde: www.sunuraghe.it []
  12. Cfr., O.Todisco, Guglielmo d’Occam, filosofo della contingenza, Messaggero di S.Antonio, Padova, 1998, pp. 73-88 []
  13. Cfr., ex plurimis, da ultimo: S.Fontana, Linguaggio e Multimodalità. Gestualità e oralità nelle lingue vocali e nelle lingue dei segni, ETS, Pisa, 2009, P.Nerhot, Questioni fenomenologiche seguite da letture freudiane, Cedam, Padova, 2002 []
  14. Cfr., P.Nerhot, cit., pp. 6-9 []
  15. Cfr., il relativo articolo introduttivo su www.sunuraghe.it []
  16. a tale riguardo si rimanda per ulteriori opportuni approfondimenti, specie in relazione alle lingue dei segni, a S.Fontana, cit., pp. 91 e ss. []
  17. Cfr., P.Citati, cit., p. 57; S.Andrini, cit., p. 28 []
  18. Cfr., C.Petrini in La Repubblica, sabato 13 dicembre 2008, pp.39-41 []

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